Arrivano le elezioni, non scordate l’aborto

Oggi la Chiesa celebra la «Giornata per la vita», appuntamento che si ripete da quasi trent’anni, cioè da quando, in Italia, è stata varata la legge che permette l’aborto. C’è il rischio - per non dire la certezza - che a parlarne saranno appunto soltanto la Chiesa e Giuliano Ferrara, il quale ancora ieri, in un incontro pubblico a Monza, ha definito l’aborto «lo scandalo del nostro tempo». Il mondo politico sembra - anzi, è - in tutt’altre faccende affaccendato: la crisi di governo, la legge elettorale, la data delle elezioni.
Tutte cose importanti, importantissime. Ma forse è importante, importantissimo, che nell’agenda politica i partiti mettano in conto anche di dover affrontare qualcosa che non è meno rilevante - uso un eufemismo - della crisi economica, dello scalone sulle pensioni, dell’emergenza rifiuti. In Italia gli aborti legali sono circa 130.000 all’anno, da qualche tempo. Prima erano ancora di più. Secondo i dati ufficiali del ministero della Sanità, 4.255.005 dal 1978 (anno di approvazione della legge) al 2001. Insomma sono circa cinque milioni i nostri connazionali che non sono venuti al mondo dopo aver cominciato a vivere nel luogo più sicuro e amorevole che esista per una creatura: il ventre della mamma.
È «oscurantismo» invitare tutti a riflettere su una tragedia di una simile portata? Trent’anni fa la politica italiana fu chiamata a fissare regole per far fronte al dramma degli aborti clandestini, e varò la legge 194. È «oscurantismo» (ripeto) chiedere che oggi la politica riesamini la questione, prendendo atto che la legge ha funzionato poco, o pochissimo, quanto a prevenzione? Sempre ieri, Ferrara ha detto di sperare che il prossimo governo, «qualunque sia», accolga il principio di una moratoria sull’aborto. Noi lo diciamo con lui, e con la Chiesa che oggi richiamerà il popolo all’inviolabilità della vita.
Il Giornale - a partire da un editoriale del direttore - si è già schierato in questo senso. Un lettore, l’altro giorno, mi ha scritto che questa posizione è in contrasto con il nostro Dna, che è quello, laico, di Indro Montanelli, il quale su questa strada non ci avrebbe seguito. Ho già risposto in privato a questo lettore - che è uno dei nostri più affezionati - e ora lo faccio anche in pubblico, ricordando che cosa scrisse Montanelli il 6 gennaio 1979, quando si accusava la Chiesa di ficcare il naso negli affari dello Stato. «Riconosco che lo Stato non poteva più evadere il problema dell’aborto. Il modo in cui lo ha risolto non mi piace. Come quasi tutte le leggi italiane, anche questa è macchinosa, e nella sua puntigliosa casistica si presta a tutte le interpretazioni: le più restrittive e le più permissive». Parlando poi della campagna lanciata dalla Chiesa sulla legge 194, Montanelli scriveva: «Obietta qualcuno: ma questa è un’interferenza». Non così la pensava lui: «Il sacrilegio la Chiesa deve denunciarlo dovunque lo veda. Altrimenti, tanto vale che rinunci al suo Magistero. (...) La Chiesa potrà aggiornare gli abiti talari, le sue liturgie. Ma non le verità (...) fra le quali la sacralità della vita umana è fondamentale». Basterebbe questo a non farci sentire figli degeneri del Maestro.
Ma c’è, indubbiamente, dell’altro. C’è che da quegli anni Settanta molte cose sono cambiate. È finita, ad esempio, la folle campagna di disinformazione che volle far credere agli italiani che nel nostro Paese si praticavano quattro milioni (ma sì: quattro milioni!) di aborti clandestini all’anno, un dato evidentemente smentito poi dal numero di aborti legali. Una campagna folle, anzi menzognera, che gabellò per vera anche la cifra, del tutto inventata, di 25.000 donne morte all’anno in Italia per interruzioni di gravidanza clandestine. Anche dal fronte pro-aborto, oggi, certe falsità non si ripetono più. Soprattutto, oggi nessuno mette più in discussione il fatto che l’aborto sia la soppressione di una vita umana. Si dice che una donna ha comunque il diritto di decidere anche per un altro: ma nessuno può più negare che esista già, appunto, un «altro».
È successo poi che molte - e molti - hanno preso coscienza di quanto dolore abbia prodotto, in loro stessi, l’esercizio di quel «diritto». Ferrara è uno di costoro.

È vero, come si dice spesso, che la prima battaglia da fare non è legislativa ma «culturale»: nel senso di suscitare un clima che favorisca la scelta per la vita. Però anche le leggi fanno cultura. Anche la politica, insomma, deve fare la sua parte. Forza, futuri amministratori di un Paese in cui 130.000 bambini all’anno vengono rifiutati.

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