ARTAUD Lo specchio oscuro del genio malato

Nell’autunno del 1947 il dodicenne Jean-Jacques passa con la mamma davanti ai tavolini all’aperto del Deux Magots. Sono appena stati dal dentista e la donna sta probabilmente pensando che un cafè-créme e un croissant il piccolo se li sia meritati. «Guarda quel signore», dice lui e indica una figura scheletrica, vestita di nero, i capelli lunghi e sporchi, una sciarpa annodata come un cappio, il volto percorso da orribili tic, la bocca che emette piccoli grugniti, rantoli, la mano che febbrilmente riempie fogli su fogli del taccuino che ha di fronte. Il vecchio è solo e isolato: intorno a lui c’è il vuoto, cosa strana per quello che, insieme al Flore, è il bar per eccellenza di Saint-Germain-des Prés, il luogo deputato degli incontri, degli artisti e degli intellettuali. La madre stringe forte la mano del bambino e cambia idea: «È Artaud » dice, «vieni, sennò perdiamo l’autobus».
Artaud morirà pochi mesi dopo e ora, a distanza di mezzo secolo, il bambino di allora, Jean-Jacques Lebel, è il curatore di «Artaud-Volti-labirinti», il «montrage» (neologismo che sta nella fusione fra montaggio cinematografico e dimostrazione teorica) allestito al Pac, il Padiglione d’arte contemporanea di Milano (via Palestro 14, sino al 12 febbraio). «Quella indimenticabile apparizione - ricorda ora - ha sicuramente avuto un peso determinante nel far nascere la mia immensa stima per Artaud e per la lotta esistenziale che ha condotto. Quel suo essere “solo contro tutti” impone rispetto».
Il povero, terribile vecchio che si materializzò davanti al dodicenne Lebel aveva allora cinquant’anni ed era un relitto rispetto al bellissimo, febbrile giovane che Man Ray aveva fotografato vent’anni prima, l’immagine perfetta dell’artista come genio, puro nel suo essere percorso da una luce, gli occhi che guardano di sbieco pieni di un’indifferenza che rasenta il disprezzo, la pelle del viso così delicata che da un momento all’altro le ossa potrebbero aprirla, insolente eppure indistruttibile nella sua fragilità. Negli anni fra le due guerre non c’è film in cui Artaud prestò il suo volto, dal Napoleone al Cesare e Lucrezia Borgia di Abel Gance alla Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, all’Opera da tre soldi di Pabst, all’Ebreo errante di Morat in cui esso non si imponga, indipendentemente dal ruolo, dalla durata, dal travestimento, una sorta di fulmine che buca lo schermo.
Eppure «il cinema è un mestiere orribile. Troppi ostacoli impediscono l’espressione o la realizzazione. Troppe contingenze commerciali o finanziarie mettono in difficoltà i registi che conosco. Si difendono troppe persone, troppe cose, troppe esigenze alla cieca. Perciò il cinema è un mestiere che sicuramente abbandonerò se in un ruolo mi sentirò soffocato, menomato e separato da me stesso, da ciò che penso e da ciò che sento». Lo fece nel 1935, quando aveva già scritto il primo e il secondo Manifesto del teatro della crudeltà, aveva già pubblicato Eliogabalo, era già entrato e uscito da cliniche e ospedali nel vano tentativo di disintossicarsi dalle droghe.
Sino ad allora aveva avuto una vita difficile, ma niente di paragonabile all’inferno che di lì a poco lo avrebbe inghiottito. Colpito da meningite a cinque anni, balbuzie, emicranie, disturbi nervosi ne avevano segnato l’adolescenza. A vent’anni è il primo ricovero per depressione, a ventiquattro la sifilide: il combinato disposto di arsenico, mercurio, bismuto, laudano, preparano la strada di un processo schizofrenico inarrestabile. Da quel 1935 che segna di fatto l’abbandono delle scene, cinematografiche e teatrali, la caduta è vertiginosa: il 1936 lo passa in Messico, vivendo con la tribù indiana dei Tarahumara e partecipando al rito del peyoti, il 1937 lo vede prima in clinica, poi in Irlanda, dove è arrestato per oltraggio al pudore e rimpatriato, poi di nuovo in ospedale. Da allora e fino al 1946 non ne uscirà più: cambiano i luoghi di ricovero, i metodi di cura, comprese quelle scariche di elettroshock contro cui non smetterà di indignarsi, ma non la diagnosi: malato mentale irrecuperabile.
Intorno alla schizofrenia la rassegna del Pac ruota come una sorta di farfalla attratta irresistibilmente dalla luce. Nel ricostruire la stanzetta - il letto di contenzione, la camicia di forza - dove, un carcerato più che un malato, Artaud subisce in 19 mesi 52 scariche, le radiografie che dimostrano una lesione permanente alla spina dorsale come conseguenza, le immagini fotografiche di un trattamento forzoso di quel genere su un paziente recalcitrante, Lebel ha buon gioco nel mostrare l’incapacità della scienza medica ufficiale nell’accettare una malattia che nella moltiplicazione degli io nasconde pozzi insondati di creatività. C’è qualcosa di inumano, o di troppo umano, in quei clinici che per annientare il delirio di una mente annientano, né più né meno, la mente stessa. Come si lamenterà, con perfetta lucidità, lo stesso Artaud: «L’elettroshock fa di me un assente che si avverte assente e che per settimane va in cerca del proprio essere, come un morto accanto a un vivo che non è più lui, che esige la sua venuta e nel quale non può più entrare. Dopo l’ultima serie, sono stato per tutto agosto e settembre assolutamente incapace di lavorare, di pensare, di sentirmi essere. Questo trattamento iniquo mi distacca da tutto e dalla vita».
Eppure... C’è nel catalogo un’intervista ad André Berne-Joffroy, già conservatore al Museo d’arte moderna di Parigi, visitatore di Artaud all’ospedale psichiatrico di Rodez, dove alla fine era stato rinchiuso, e in pratica l’uomo che si incaricherà di mettere in salvo manoscritti e documenti dopo la sua morte, che induce a molte cautele. Secondo Joffroy «se Artaud non fosse stato sottoposto a quel trattamento non si sarebbe potuto farlo uscire nel 1946. Sicuramente, gli elettroshock hanno migliorato molto la sua parafrenia... Dico soltanto, e lo dico nel modo più categorico, che stava molto meglio quando è uscito da Rodez rispetto a tre mesi dopo. È stato allora che l’ho rivisto, e mi è sembrato un vecchio. Dal momento in cui hanno cominciato a fornirgli oppio o altre droghe è dimagrito moltissimo, si è ingobbito. Quando l’avevo visto a Rodez stava ancora più o meno eretto. Quando l’ho rivisto a Parigi era invecchiato di vent’anni. Irriconoscibile».
Più Lebel nell’intervista si erge ad accusatore della medicina ufficiale, vista come una confraternita di carnefici-stregoni, più Joffroy puntualizza, riconduce alla realtà, fa capire l’impossibilità per Artaud di un’esistenza quotidiana autonoma fuori dalle mura in cui fu richiuso. Ed è del resto lo stesso Lebel a ricordare che la richiesta al dottore Ferdière, il medico dei famigerati elettroshock, di curare Artaud venne proprio da uno dei suoi amici più fraterni, il poeta surrealista Robert Desnos: «Bisogna che si occupi di lui. Questa volta non temo per il suo stato mentale, è il suo stato generale ad inquietarmi».
Insomma, il confine fra genio e follia, ovvero l’anormale normalità del genio, è esile e difficile da individuare. E i complessi di persecuzione, le moltiplicazioni di personalità, i rituali scaramantici, i tic, le manie, le violenze contro se stesso e contro altri disegnano un percorso irto di difficoltà, foriero di fraintendimenti.


Nelle sale del Pac, le 44 istantanee che Denise Colomb gli scattò nel dicembre del 1946, sei mesi dopo che era stato definitivamente dimesso, fanno il paio con i coevi ritratti di Jean Dubuffet, un volto maledetto da derviscio, maligno e sfrontato, segnato e contorto, vinto e vincitore: «Nonostante i suoi abiti logori e sudici ha un’eleganza imponente, come un magnifico principe, tremendo nella sua follia».

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