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Sulle orme profetiche dei Presocratici Impresse al confine tra ragione e mito

Il primo volume della monumentale opera della Fondazione Valla svela percorsi inediti

Sulle orme profetiche dei Presocratici Impresse al confine tra ragione e mito

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Sulle orme profetiche dei Presocratici Impresse al confine tra ragione e mito

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Tra seconda metà del VII e la prima metà del VI secolo a.C.
, emergono, in Grecia, in aree esposte a contatti con popoli del Vicino Oriente o coi territori della Sci zia, «uomini divini e purificatori»: come Aristea di Proconneso, che cade morto in una bottega, viene rapito da Apollo e arriva nella terra degli Issiedoni; è informato dell’esistenza degli Iperborei e degli Arimaspi, che hanno un occhio solo e lottano per sottrarre l’oro ai grifi che lo custodiscono; poi sparisce di nuovo, e ricompare duecentoquarant’anni più tardi a Metaponto, sotto forma di corvo, e, infine, nelle vesti di un fantasma che racconta la sua strabiliante vicenda. O Erotimo di Clazomene, secondo Eraclide la terza reincarnazione di Pitagora, che giace nudo per entrare in catalessi e lasciare che il nous – l’anima – esca dal corpo e vaghi per il mondo per riportare messaggi o profezie. O Epamenide di Creta, che dorme in una caverna per cinquantasette anni, e si risveglia con poteri mantici e di purificatore: Epimenide si nutre solo di un cibo magico, lo halymon, che conserva in uno zoccolo di bue, non emette escrementi ed è onorato come un eroe.
Questi personaggi, fondamentali per chiarire molti aspetti legati ai cosiddetti «presocratici», hanno poco – anzi, nulla – a che fare con la filosofia speculativa di matrice platonica o aristotelica, in cui, a partire dall’antichità, sono stati ostinatamente ingabbiati, come osserva Laura Gemelli-Marciano nella sua densa, preziosa introduzione al primo volume della nuova edizione dei Presocratici: da Talete ad Eraclito (Fondazione Valla, pagg. 728, euro 50), in cui si distacca profondamente dall’edizione “canonica” di Diels e Kranz, riuscendo in un’impresa quasi titanica: la liberazione – e la rivelazione – dei “veri” presocratici. Che sono molto di più di quel sistema di pensiero che non sono mai stati, e si nascondono dietro molti capisaldi del nostro immaginario: ad esempio, l’idea dell’eterno ritorno. Nietzsche l’aveva conosciuta in un frammento di Eudemo, che la attribuiva ai pitagorici, e l’aveva trovata assurda; fino all’istante fatale, in cui, nel 1881, a Silvaplana, aveva avuto la sua rivelazione («io sono la tua affermazione in eterno: perché io ti amo, eternità!»). Ma anche l’eterno ritorno, attraverso cui voleva illudersi di avere eliminato Dio, non è che un mito, o solo «uno dei grandi simboli attraverso cui Dio si rivela», come scriveva Carlo Diano.
E i presocratici hanno a che fare con il mythos, nel senso greco del termine, non meno di quanto abbiano a che fare con l’idea di Dio e con il logos, e sono legati anche ad una sfera esoterica, tra magia e filosofia della natura: Empedocle, ad esempio, si definiva un mantis, un guaritore, un «dio immortale e non più mortale»; Parmenide insegnava una Verità che gli era stata comunicata nell’aldilà dalla signora dell’oltretomba, Persefone; Anassagora si sarebbe presentato ai giochi olimpici vestito con un mantello, perché aveva previsto un acquazzone; Pitagora, “uomo divino” che si considerava una reincarnazione di Apollo Iperboreo, poteva compiere viaggi estatici, conosceva ogni cosa e proclamava la dottrina della trasmigrazione dell’anima: quasi uno “sciamano”, che sottoponeva i suoi allievi a prove durissime e per cui «i piaceri sono un male, perché siamo venuti al mondo per punizione e dobbiamo essere puniti».
Eraclito di Efeso, forse la figura più affascinante, invece, polemizzava vigorosamente contro le iniziazioni private, le purificazioni con il sangue e l’ignoranza di chi praticava riti in maniera inconsapevole: non rifiutava la religione tradizionale, ma neppure alcuni aspetti delle culture mesopotamica, persiana ed egizia, e tentava di rievocare il significato profondo di dèi e riti che gli uomini –ignoravano.

Da qui deriva la sua profonda solitudine, testimoniata da periodi di isolamento nella natura selvaggia, come Mosè ed Elia.

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