Cultura e Spettacoli

Artemisia Gentileschi: poco caravaggesca ma molto femmina

Artemisia Gentileschi: caravaggesca o no? A quattrocento anni dalla morte di Caravaggio sulla scena non c’è solo lui, ma ci sono anche i suoi seguaci riesumati in rassegne e libri. Così capita che l’intrigante e brava pittrice Artemisia Gentileschi, nata a Roma l’8 luglio 1593 e morta a Napoli probabilmente nel 1653, ricompaia nel mirino degli studiosi. Mentre è protagonista di una sezione monografica nella mostra dedicata a «Caravaggio e caravaggeschi» a Firenze, esce un massiccio volume in due tomi, I caravaggeschi. Percorsi e protagonisti (Skira, pagg. 1008, euro 350), in cui un articolo di Judith W. Mann, dedicato ad Artemisia, attenua e mette in dubbio il suo caravaggismo. Giusto, sbagliato? Il fatto è comunque di rilievo perché per la prima volta si tende a staccare la pittrice dalla costola di Caravaggio.
Del resto, Artemisia, riscoperta da Roberto Longhi nel 1916, protagonista poi del romanzo del 1947 di Anna Banti, è stata studiata nei minimi particolari nelle sue vicende di donna, ma come artista ha ancora aspetti problematici, sebbene abbia all’attivo ottime monografie (R. Ward Bissel, Mary D. Garrard) e importanti mostre. È stata infatti la eccezionale figura di donna-artista che, in tempi in cui le donne potevano aspirare al massimo al matrimonio o al convento, riesce a superare l’infamia di uno stupro e a imporsi come una delle figure più affascinanti del suo tempo. A dare un forte impulso è stato il ritrovamento di numerosi documenti, tra cui gli atti del processo per stupro intentato da Orazio Gentileschi contro Agostino Tassi per la violenza sulla figlia. L’attraente Artemisia infatti, frequentatrice dell’ambiguo entourage paterno, era stata violentata il 6 maggio 1611 dal pittore, collega del padre.
Grande artista e forte donna, vissuta nella Roma di primo Seicento, nei vicoli del malfamato quartiere degli artisti, tra via Margutta e via di Ripetta, e poi a Firenze, di nuovo Roma, Venezia e Napoli, era stata formata alla pittura dal padre Orazio, un toscano trasferito a Roma. Esordisce giovanissima, nel 1610, firmando un quadro straordinario, la Susanna e i vecchioni. Dipinge talmente bene che i suoi dipinti si confondono con quelli del padre. Un padre possessivo, che la relega in casa. Ma Artemisia conosceva le opere pubbliche di Caravaggio e forse lo aveva anche intravisto, considerata la stretta frequentazione tra Orazio e il Merisi negli anni 1601-1603.
La violenza e il sangue che popolano i dipinti di Artemisia, l’energia con cui le sue Giuditte ed eroine varie spaccano la testa ai loro molestatori, non solo hanno affascinato le femministe, che vi hanno individuato riflessi autobiografici, ma hanno permesso di inserire la pittrice nella selva dei seguaci di Caravaggio. Adesso Judith W. Mann sostiene però che di Caravaggio c’è davvero poco nell’opera della Gentileschi e che l’iniziale caravaggismo è quello che Artemisia filtra dal padre. Anzi, nella Giuditta decapita Olferne del Museo di Capodimonte di Napoli, del 1612-1613, la pittrice si opporrebbe addirittura a Caravaggio creando un quadro di azione e lasciando perdere la luce assorbita e riflessa del pittore lombardo.

Le sue immagini? Terrene, aggressive, realiste, altro che quelle del Merisi.

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