Il Milan contro la squadra di Pablo Escobar

Nel 1989 i rossoneri guidati da Sacchi riuscirono ad avere la meglio sui colombiani del Nacional de Medellin, giocando in un clima surreale e con lo spettro del narcotrafficante pronto ad aleggiare in sottofondo

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D'accordo, manca Gullit, ma la squadra può comunque giocarsela in controllo. Mica incutono timore questi colombiani qua, che poi sarebbero precisamente il Nacional de Medellìn. Di certo non fanno tremare i polsi ad una squadra che qualche mese prima ha sollevato la Coppa dei Campioni nella incantata notte catalana, abbattendo drasticamente la Steaua di Bucarest. Galli, Tassotti, Baresi, Costacurta, Maldini, Donadoni, Fuser, Rijkaard, Ancelotti, Massaro, Van Basten. Allenatore Arrigo Sacchi. Come potrebbero fare questi sudamericani venuti dall'altro capo del mondo a scalfire le convinzioni granitiche di un gruppo che emana tecnica, forza e fiducia da ogni poro?

Così si gioca sereni: 17 dicembre 1989, Coppa Intercontinentale, Tokyo. Dall'altra parte c'è soltanto un grande nome: René Higuita, la locura applicata ad una porta da calcio. Uno capace di sfoderare parate impensabili e anche di prendersi rischi inutili soltanto a beneficio dei riflettori e del suo personal branding. Per il resto la formazione colombiana è affollata di misconosciuti per chi vive soltanto il pallone italico: Herrera, Escobar, Cassiani, Gomez, Arango, Perez, Alvarez, Garcia, Trellez, Arboleda. Per gli addetti ai lavori non c'è partita.

Si frappongono tuttavia - nella notte giapponese - due fattori alquanto imprevedibili. Il primo ha a che vedere con il tifo sudamericano. I supporters del Nacional entrano allo stadio con zaini e borse rimpinzati di trombette - una roba che evoca le terribili vuvuzelas - e iniziano a dare di fiato emettendo una costante e fastidiosissima litania sonora per tutto il tempo. Pare quasi che gli interessi più questa assordante esecuzione concertistica che la partita stessa. Puoi anche essere Marco Van Basten, ma devi ammettere che questo inquinamento acustico si insinua nei timpani, scava nelle pareti della corteccia cerebrale, disorienta, confonde. Il Milan della prima mezz'ora, del resto, sembra piuttosto appannato, asciugato di idee.

Poi c'è l'altra questioncella. C'è che il Nacional de Medellìn può vantare un tifoso speciale. Specialissimo. Trattasi del sovrano totale del narcotraffico mondiale, Pablo Escobar. Le voci sulle influenze che il cartello colombiano potrebbe avere esercitato per questa partita si sprecano. Lo spettro di Escobar si agita nella notte nipponica, perché se un criminale di quella portata tifa la squadra contro la quale stai giocando per un trofeo così importante, qualche deduzione tetra viene quasi naturale.

La partita scorre via ammantata da questo clima - tra il bagno sonoro e l'idea che qualche decisione arbitrale possa pendere dalla parte dei colombiani - senza sbloccarsi in alcun modo. Vagamente stordito pure lui, Sacchi si gratta la fronte. Servirebbe un grimaldello calcistico per stappare questo match divenuto scatoletta per sardine. Si gira verso chi si sta scaldando, Arrigo, e lo indovina. "Chicco! Dai, entra": è il momento di Evani. Per lui ci sono venticinque minuti scarsi, ma sa renderli sufficienti.

Ad una manciata di giri di lancette dalla fine, quando sembra che non ci sia verso di sbloccarla, il Milan conquista una punizione da una zolla interessante. Sulla palla si sistema proprio Evani. Trombette che ruggiscono di paura in sottofondo. Chicco però non si lascia condizionare.

Mancino chirurgico, sfera che aggira la barriera e si deposita alle spalle di Higuita: 1-0, buonanotte Tokyo, adios companeros. Coppa sollevata in extremis. Musica molesta che si spegne d'un tratto. E Pablo Escobar che da qualche parte, davanti ad una tv, impreca di sicuro.

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