Quando si pensa alla fantascienza, di norma, si pensa molto allo Spazio, specialmente se interstellare, e meno al Tempo. Certo, dai romanzi di H.G. Welles il «cronoviaggio» è entrato a far parte della nostra fantasia collettiva, aiutato anche dalla serissima relatività di Albert Einstein. Ma è sempre rimasto un filone per certi versi minore, a cui si ricorre quando proprio lo sfracello di navi spaziali non basta più, o quando uno sceneggiatore deve spiegare perché un terminator pieno di armi vuole sforacchiare signorinelle indifese. Perché è chiaro che a divertire è l’idea del bestione metallico ammazza tutti; la teoria dei paradossi temporali è solo un condimento.
Fa eccezione però un vero gigante, quasi una supernova, della science fiction: Arthur C. Clarke. Questo scrittore inglese amante dello Sri Lanka (Stanley Kubrick ai tempi di 2001: Odissea nello spazio lo chiamava «quel selvaggio che abita su un albero a Ceylon») ha messo l’aggressione al continuum temporale al centro di buona parte dei propri lavori. E per certi versi è riuscito ad averne ragione anche con la sua morte. La notizia della sua scomparsa, a Ceylon, è infatti arrivata in Europa il 18 marzo 2008 essendo però datata al 19. Solo uno scherzo di fuso orario, ma a Clarke sarebbe comunque piaciuta l’idea di morire «domani».
Sarebbe piaciuta perché nella sua ultima trilogia scritta con Stephen Baxter di cui in Italia sono giunti per ora i due primi volumi, L’occhio del tempo e L’occhio del sole (entrambe per l’Editrice Nord), la successione cronologica viene fatta letteralmente a pezzetti.
Gli stessi alieni antichissimi, immateriali e quasi divini della saga di Odissea nello spazio decidono di creare un nuovo pianeta Terra incollando, come in un patchwork, epoche storiche diverse. Finiscono perciò nello stesso calderone le falangi di Alessandro Magno (la civiltà occidentale), le crudeli orde mongole di Gengis Khan (lo spirito orientale), un manipolo di inglesi in ottocentesca tenuta coloniale (con Kipling al seguito), dei peacekeepers del 2036, un paio di astronauti e due ominidi primordiali molto spaventati e infelici. Perché tutto questo? Ma perché i Firstborn, queste creature ancestrali che condizionano l’evoluzione delle specie più giovani, come noi bipedi implumi, sono molto preoccupate del fatto che gli ultimi arrivati, mancando di buon senso, peggiorino l’entropia (parolone che significa disordine) dell’Universo. Quindi gli esseri umani vanno preservati in questa specie di zoo temporale, mentre il loro ultimo sviluppo, il pianeta Terra del 2037, va distrutto, prima che questi teppistelli tecnologici diventino in grado di viaggiare per lo spazio e far danno.
Cosa che questi guardiani dell’Universo, non proprio compassionevoli, provano a fare prima con una tempesta solare (L’occhio del sole) e poi con una bella bomba quantica. Proprio quest’ultima parte della vicenda è narrata nell’ultimo capitolo della trilogia, Firstborn, da pochissimo uscito in Inghilterra (dove a Clarke spetta il titolo di Sir) e negli Stati Uniti. I lettori italiani dovranno aspettarla ancora un po’, ma è possibile che la scomparsa di tanto autore ne anticipi la pubblicazione.
Qui da noi Clarke è rimasto per certi versi uno scrittore di nicchia, legato a un pubblico che di fantascienza è bulimico, e saranno questi cultori ad attendere in maniera spasmodica l’arrivo del suo ultimo libro che si ricollega idealmente alle atmosfere di Odissea nello spazio (lo scrittore stava lavorando anche a un altro titolo L’ultimo teorema, ma non si tratta propriamente di science fiction).
Eppure Clarke era qualcosa di più di uno scrittore di genere. Dopo Asimov è forse l’autore che più si è interrogato sul rapporto scienza-uomo. Sicuramente è quello che più si è interessato al rapporto scienza-tempo e progresso-regresso. I semi di questa riflessione c’erano gia tutti nel racconto La sentinella, da cui Kubrick trasse il suo mitico film. Un film cosi iconico e fondamentale che ha consacrato anche lo scrittore, ma mettendo sotto il riflettore una sola sua opera e oscurando le altre.
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