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Assalto all'esecutivo dietro ci sono Rcs, le banche e pure Prodi

In ballo ci sono i futuri assetti del gotha economico italiano Le mosse di D’Alema e De Benedetti e la guerra tra Procure

Assalto all'esecutivo 
dietro ci sono Rcs,  
le banche e pure Prodi

L’analisi che Mario Monti ha svolto ieri sul Corriere della Sera non solo è sbagliata ma è innanzitut­­to contraddittoria: il punto centrale sollevato dal professore bocconia­no è che il principale problema italiano consiste nella debolezza del governo Berlusconi. Ma è stato pro­prio il Corriere, flirtando con Gian­franco Fini, poi tentando di cavalca­re Giulio Tremonti e infine puntan­do persino su Roberto Maroni, che ha lavorato per cercare di indeboli­re l’esecutivo. E Monti, candidato ormai da diversi mesi innanzi tutto da Massimo D’Alema come primo ministro di un governo tecnico, è uno dei protagonisti di questa ope­razione. Insomma un’eventuale fra­gilità del berlusconismo dovrebbe essere rivendicata come un risulta­to di una lunga iniziativa opinioni­stico-giornalistica, accompagnata dallo sfrenarsi delle azioni giudizia­rie. Se invece si considera che que­sto stato di incertezza sia un male, questa constatazione dovrebbe essere almeno accompagnata da una seria riflessione sui propri errori. Altrettanto stravagante è l’idea che l’Italia sia interamente commis­sariata, nelle mani di un «podestà straniero» come nei comuni medio­evali: certamente in una situazione di crisi dei mercati, i poteri politici sono particolarmente condizionati da quelli tecnici (non solo istituzio­nali). Ma dire che Roma è totalmen­te nelle mani della Bce, è come dire che Washington è sotto la dittatura di Standard & Poor’s. In Europa si sta decidendo una linea di compor­t­amento che vede un atteggiamen­to timoroso e tendente alla ritirata da parte tedesca contrapposto a una richiesta francese e italiana di una strategia continentale più atti­va. L’arrivo di Mario Draghi a Francoforte è stato da tutti gli osservatori considerato risultato di una conver­genza tra Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi, con anche un’apertura a un maggiore dialogo con gli ameri­cani. I movimenti della banca cen­t­rale europea naturalmente rispon­dono a scelte tecniche ma operano in un quadro politico dove Roma ha più di una carta da giocare e lo deve fare con una certa pazienza, misu­rando le mosse e poi trattando co­me è avvenuto in questi giorni, evi­tando di considerarsi psicologica­mente commissariata. Insomma non siamo nel 1992 quando Washington e Berlino ci imposero molte scelte, provocando anche cer­­ti grossi pasticci istituzionali (si con­sideri solo il ruolo anomalo dei pm) ed economici (l’assetto del sistema del credito, le privatizzazioni senza liberalizzazioni, i guai combinati da Carlo Azeglio Ciampi sulla lira, i ri­tardi sulla produttività) che la Se­conda repubblica continua a paga­re. In parte questo avviene perché tedeschi e americani non sono più nelle condizioni di venti anni fa, in parte perché è cresciuta una certa consapevolezza nazionale (sia pu­re non ancora del tutto adeguata). E questo grazie anche alla scuola eco­nomica della Cattolica, attaccata da Monti, che ha descritto in modo concreto la struttura italiana (rispar­mio e patrimonializzazioni private, industrializzazione ed esportazio­ni) in modo più serio di certi model­li econometrici che si vorrebbero imporre come verità rivelata. La situazione è grave, richiede di­battiti e obiettivi più composti. È evi­dente anche però che, come si dice degli arricchimenti (i veri soldi si fanno quando il sangue scorre per le strade), certi ambienti antepon­gono i propri interessi di potere al­l’assestamento dell’Italia. Sono in corso movimenti in Mediobanca, nelle Generali, in Unicredit. Si è let­to sul Giornale delle lotte in procure decisive come Milano e Roma. In Confindustria Emma Marcegaglia si appresta a lasciare con un po’ di af­fanno.

Nei giri che condizionano il Corriere si teme sia un consolida­mento di Berlusconi avendo perso le sponde che potevano condizio­narlo (da Tremonti a Maroni) sia che la linea di Carlo De Benedetti per portare Romano Prodi al Quiri­nale sia vincente senza bisogno di via Solferino. Da qui l’ultimo bom­bardamento al governo non privo di motivazioni «private» ma «pub­blicamente » francamente irrespon­sabile.

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