Gian Marco Chiocci
nostro inviato a Palermo
Capitolo chiuso, da non riaprire mai più. Tempo due ore e mezza e i giudici della Terza sezione penale del Tribunale di Palermo, uscendo dalla camera di Consiglio, restituiscono l'onore al prefetto Mario Mori e al colonnello Sergio De Caprio, alias «Ultimo»: assolti entrambi, perché il fatto non costituisce reato, dall'accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata perquisizione al covo di Totò Riina. Assolti i carabinieri, assolto il Ros, assolte le Istituzioni. Chi ne esce a pezzi è la Procura di Palermo, che vede crollare l'ennesimo processo senza prove, senza reati, senza senso, dove si sono evocate ragioni di Stato e non ragioni di mafia, dove accanto all'«oscurità del dolo» sono stati inseriti fatti suggestivi che con l'oggetto del processo non avevano niente a che vedere: dal suicidio del maresciallo Lombardo alle stragi del '92, da Ciancimino a Contrada, dai papelli ai mandanti occulti, fino all'ultimo coupe de theatre del pm che nella controreplica ha fatto riferimento a una lettera dei familiari delle vittime di via dei Georgofili indispettite dalla mancata perquisizione che avrebbe potuto portare ai mandanti delle stragi.
Nessun accenno, per fortuna, all'ultima moda investigativa che punta ancora ad apparati istituzionali deviati e collusi con riferimento alla scomparsa dell'agenda di Paolo Borsellino dall'auto blindata accartocciata dal tritolo. Assolti, dunque, nonostante l'insistenza della pubblica accusa nell'arrampicarsi sugli specchi delle suggestioni, ovvero a ciò che Piero Milio, difensore di Mori, ha definito un «sovvertimento della logica con la verità sempre stravolta e violentata».
In assenza di prove, con un castello accusatorio crollato nel contraddittorio dibattimentale, la pubblica accusa si è rintanata nel possibile indimostrabile e nel plausibile mai dimostrato delle entità superiori. Ha scandito il pm Ingroia: «Credo che lo Stato, se ragion di Stato vi fu, dovrebbe chiedere perdono agli imputati Mori e Ultimo per averli esposti ad un processo per il quale sono finite sotto processo non solo la condotta per la mancata perquisizione del covo di Riina, ma anche la condotta per l'arresto di Riina».
Ragion di Stato e non ragion di Mafia dietro la decisione - condivisa con la Procura - di sospendere l'irruzione nel covo? Mori e De Caprio - secondo il pm - son finiti alla sbarra per aver favorito Cosa Nostra quando in realtà è lo Stato che avrebbe dovuto rispondere della loro condotta. «Credo perciò che lo Stato debba chiedere scusa agli imputati e perciò chiedo che il pm, quale rappresentante dello Stato, si faccia interprete di quel perdono». Roba kafkiana, paradossale. Ma c'è un ma: «Credo però che anche gli imputati debbano chiedere scusa ai cittadini italiani, perché la loro condotta ha determinato la mancata perquisizione e ha determinato anche questo processo, lacerante per le istituzioni, che ha finito per travolgere la cosa migliore di quellanno: l'arresto di Riina». Pure quella, mascariata. Si straparla di ragion di Stato, ma non c'è una prova che rafforzi il retropensiero della pubblica accusa. Dopo un'arringa devastante che ha messo a nudo i flop dell'inchiesta, adesso Milio si gode il verdetto dolceamaro: «Sono felice per Mori e De Caprio, ma al contempo sono indignato per come hanno trattato, per 12 anni, gli artefici di quell'impresa eccezionale che è stata la cattura di Riina».
E, mentre il mondo politico, da Gasparri a Bianco, si congratula trasversalmente per la sentenza che assolve l'Arma e scagiona lo Stato, gli eroi dalla divisa non più insozzata dagli schizzi di fango commentano con compostezza militare: «Questa sentenza mi restituisce la felicità turbata» dice De Caprio al telefono del difensore Francesco Romito. Al cellulare del collega Milio c'è invece Mori: «Caro avvocato, hai visto? Non poteva andare diversamente poiché avevamo ragione noi».
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