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Atlantico a vela per tornare a Miami dove un criminale gli sparò

Andrea Stella. Ferito a colpi di pistola durante una tentata rapina, oggi è in carrozzella: "Pensavo soltanto al suicidio. Il mare e un catamarano m’hanno salvato"

Atlantico a vela per tornare a Miami dove un criminale gli sparò

Lo Spirito di Stella è quello che fa dire al vicentino Andrea Stella, 33 anni, quasi un terzo dei quali trascorsi in sedia a rotelle: «Non rinuncerei a ciò che sto facendo in cambio della promessa di poter camminare di nuovo». Lo Spirito di Stella - il nome di una barca, di un’associazione, di un sito internet, di una filosofia di vita - è quello di un naufrago che si scopre eroe: «Ero concentrato soltanto sul mio suicidio. Avevo vissuto bene, in piedi, fino a 24 anni. Perché mai dovevo accettare un’esistenza dimezzata? Solo che non sapevo come fare. Buttarsi dalla finestra non è così semplice, per un paraplegico. Il cocktail letale richiede che qualcuno ti procuri i farmaci giusti. Portatemi una pistola, mi veniva da urlare, siate buoni». Eppure le sue tre revolverate, di cui due andate a segno, le aveva già avute. Era il 29 agosto del 2000. Stella si trovava in vacanza in Florida: un premio per la laurea in giurisprudenza conseguita il mese prima all’Università di Trento. Frequentava una scuola di lingue a Fort Lauderdale, una cinquantina di chilometri da Miami. Gliel’avevano consigliato nello studio di diritto internazionale Pavia e Ansaldo all’atto di assumerlo: «Perfezioni l’inglese e lo spagnolo». Al ritorno in Italia avrebbe cominciato a fare pratica legale.
«S’è trovato nel posto sbagliato all’ora sbagliata», dichiararono alla stampa gli investigatori. Ma lui che poteva saperne? I cartelli all’ingresso dell’Isola di Venezia - che crudele destino per un veneto - avvertono che «Isle of Venice is protected by security patrol and constant video surveillance», è protetta da pattuglie di sicurezza e video sorveglianza costante. C’era persino un’auto della polizia privata col lampeggiante acceso, quella sera, anche se Andrea non ricorda d’aver visto l’agente al posto di guida.
Il giovane di Thiene parcheggiò la sua Ford Mustang decapottabile noleggiata per 50 dollari al giorno, «per 40 mi offrivano una Fiat Palio, lei che cosa avrebbe preso al mio posto?». Suonò il campanello a casa di un coetaneo di Napoli conosciuto alle lezioni del mattino, «ma non aprì nessuno, perché ero in ritardo rispetto all’appuntamento». Tornò sui propri passi. Vide quattro giovani incappucciati che armeggiavano intorno alla cabrio. «Uno di loro mi urlò qualcosa e mi sparò». Più che ladri, dementi. Imbottiti di crack: non si rischia la sedia elettrica per rubare un’auto in una strada privata senza uscita. Un proiettile gli spappolò il fegato, un altro gli bucò un polmone e si fermò nella colonna vertebrale. «Dov’erano finite le gambe? Non le sentivo più. Raggiunsi la Mustang a carponi, strisciando nel mio sangue. Mi attaccai al clacson». Alla donna che sopraggiunse disse solo: «I’m dying», sto morendo.
Non è morto. Non s’è suicidato. La paralisi del corpo non è riuscita a piegare lo spirito. Ha fondato Lo Spirito di Stella, un’associazione che ha avuto tra i primi sostenitori re Juan Carlos di Spagna, gli skipper Giovanni Soldini e Mauro Pelaschier, i calciatori Clarence Seedorf e Rino Gattuso e l’indimenticabile direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò. S’è fatto costruire un catamarano per disabili lungo 17,5 metri, battezzato con lo stesso nome. Dai cantieri Mattia e Cecco di Dervio l’ha fatto scendere lungo il Po fino all’Arsenale di Venezia e lì Manuela Levorato e Carlo Ancelotti lo hanno varato. Poi è salpato da Genova con lo Spirito di Stella e ha attraversato l’Atlantico per tornare a Miami, la città dove tutto doveva finire e dove invece tutto è cominciato.
Ha portato per mare in cinque anni 700 fra disabili e ospiti. Ha scritto Due ruote sull’oceano (Longanesi), premio Bancarella. Ha bandito con Autogrill un concorso internazionale di idee, vinto alla quarta edizione da una studentessa ventunenne della facoltà di architettura di Venezia, che ha progettato nell’area di servizio di Mensa, sulla E45 Ravenna-Orte, il primo bancone bar accessibile anche ai paraplegici. Ha coinvolto col suo entusiasmo la Marina militare e sponsor come Gratta e vinci, Volkswagen Mobility e Otb Foundation del suo conterraneo Renzo Rosso, patron della Diesel. Ha cominciato a costruire a Bassano del Grappa la Casa per tutti, tre unità abitative indipendenti vicino all’ospedale San Bassiano, che saranno messe a disposizione di pazienti con danni spinali. Ha promosso la prima scuola d’arte al mondo diretta da uno scultore non vedente, Felice Tagliaferri. «Che concreto che sei!», ha esclamato il presidente Giorgio Napolitano, appuntandogli sul petto le insegne di cavaliere della Repubblica.
Adesso s’è pure inventato Spirito libero, una scuola di vita più che di vela, in cinque tappe: Taranto, Siracusa, Rimini, Jesolo, Trieste. Una sessantina di giornate, da ripetersi ogni anno, durante le quali quattro disabili che non si sono mai mossi da casa, quattro accompagnatori, un medico, un fisioterapista e un ospite illustre vanno insieme per mare, come vecchi amici. Lo Spirito di Stella li accompagna. Aveva ragione Pitigrilli: la sola autentica sclerosi è la sclerosi dello spirito.
Dopo il ferimento che accadde?
«Fui trasportato, sempre cosciente, al Broward general medical center. Lì ebbi la prima fortuna: quella sera era di turno il dottor Ralph Guarneri. Avendo lavorato negli ospedali di New York, era il chirurgo più specializzato nelle ferite d’arma da fuoco. Mi operò quattro volte in 24 ore, poi mi tenne in coma farmacologico per 35 giorni. Ero più morto che vivo. Mi somministravano un antibiotico fuori commercio chiamato dagli infermieri top gun: l’avevano usato solo 12 volte in 30 anni. La flebo della morfina sempre attaccata. Nel sonno avevo allucinazioni orribili, tipo Lara nuda raggomitolata come un pollo dentro un sacchetto di plastica. Lo psicologo mi ha spiegato che in questi casi la mente cerca di mitigare il dolore attraverso i sogni».
Chi è Lara?
«Il mio primo amore. La conobbi sui banchi del liceo scientifico. L’ultimo giorno di scuola la baciai. Qualche compagno di classe invidioso le disse che lo avevo fatto per scommessa. Non era vero. Ci ritrovammo a 22 anni. Dopo l’incidente è stata importantissima per me. Nel 2004 mi ha sposato. Nel 2007 ci siamo separati. Adesso ho accanto Maria».
Che cosa non ha funzionato fra voi?
«La mia testa. È come se si fosse esaurita un’esperienza troppo forte. Lara fece il passaporto in un giorno e si precipitò negli Stati Uniti. Ci rimase per 50 giorni. Conobbe i miei genitori in corsia, a Fort Lauderdale. Mia madre Francesca, ex insegnante di lettere alle scuole medie, era paralizzata forse più di me. Mio padre Pierluigi no, lui è diverso, vive il presente, è un ottimista, un ingegnere, un designer, manda avanti un’azienda di mobili per ufficio, la Estel, con quattro stabilimenti e 700 dipendenti. Mi hanno raccontato che al mio capezzale si colpevolizzava: “Quante cose non gli ho mai detto!”. Appena uscito dal coma ha cominciato a spronarmi: “Puoi fare questo, questo, questo”. Il prodotto scrivania era diventato il prodotto figlio. Doveva occuparsene da imprenditore, risolvere. Ero ancora mezzo morto e lui con cinque sfrisi di matita già mi aveva progettato gli ausili per camminare: un disegno, io in piedi con i tutori, mentre faccio l’amore in cucina. Riuscii solo a dirgli: “Papà, ma che cazzo ci fai qua, invece di essere al lavoro?”. Al ritorno a casa trovai già installato l’ascensore per disabili. Mi portò a Fano per comprarmi una barca, un 12 metri. Rifiutai. Avrebbe potuto propormi la luna: io volevo solo morire».
Chi le disse che sarebbe rimasto per sempre in carrozzella?
«Lo capii da solo. Erano tutti evasivi. Chiedevo: ma le gambe? Le sentivo così strane... Al risveglio non mi davano da bere. Io pensavo che fosse un problema di soldi, che servisse un dollaro per la macchinetta della Coca-Cola. Parlavo con l’orologio. Non ero più capace di scrivere: tracciavo le aste, anziché le lettere, come alle elementari».
La svolta quando è avvenuta?
«Durante la riabilitazione all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Su 35 lesionati midollari ricoverati con me, ero l’unico a non avere il problema dell’ascensore in casa. E osavo lamentarmi? Se stai lì a chiederti qual è il senso della vita, non ne esci più. Due sere la settimana i medici mi lasciavano ordinare la pizza fuori. La scelta, per me e i miei compagni di sventura, è diventata: margherita o prosciutto e funghi? In quel momento era importante, per noi. Ho capito che gli uomini hanno dentro di loro le risorse per dare risposte a problematiche nuove».
Non tutti possono costruirsi un catamarano.
«M’interessava dimostrare che se una persona riesce ad affrontare le cose più complicate, a maggior ragione ce la farà in quelle semplici. Omero Papait è uno chef che aveva lavorato da Pinchiorri a Firenze. Ha avuto un incidente in auto, un colpo di sonno. È il primo paraplegico che ho conosciuto in ospedale a Vicenza. Non aveva mai affrontato il mare. Dopo essere stato sullo Spirito di Stella, ha aperto con i genitori un ristorante a Mirano, lo Shake a Leg, che vuol dire agita una gamba. Oltre a quattro cabine doppie, quattro bagni e due posti per l’equipaggio, tutti accessibili ai disabili, ci siamo accorti che sul catamarano si poteva ricavare un quinto bagno di servizio. Da una difficoltà è nata un’opportunità per tutti. I sani non lo sanno, ma molti oggetti di uso comune sono stati inventati per noi, non per loro».
Per esempio?
«Il Pos col Bancomat in origine doveva servire come forma di pagamento per i non vedenti. Il telecomando del televisore era destinato a un paraplegico. L’idromassaggio è nato da un’intuizione di Roy Jacuzzi per curare l’artrosi reumatoide del figlio. Quanti ostacoli non vengono rimossi per pigrizia? Com’è che io riesco ad attraversare l’Atlantico in barca ma non Milano con l’autobus?».
Ci ha provato?
«Certo. Tre ore e mezzo da San Siro a piazza Duomo, alla velocità media di 1,71 chilometri orari. Nessuno ti sa dire quando passano i mezzi speciali o dove comprare il biglietto. Tra l’isola di attesa e il bus c’è un gradino: ti serve qualcuno che t’aiuti. La mia carrozzina pesa appena 8 chili, ma se fosse elettrica ne peserebbe, con me sopra, dai 150 ai 200: chi ce la fa a sollevarti? Il bus è dotato di pedana elettroidraulica con fotocellule. La pedana esce e rientra, esce e rientra: troppi automatismi, non funziona. Gli altri passeggeri all’inizio ti compatiscono, passato un minuto di tentativi gli stai sulle scatole, dopo due minuti vorrebbero ammazzarti. Una signora doveva andare in ospedale dal marito e ha minacciato di chiamare i vigili urbani. Percorsi 500 metri, la pedana è uscita da sola e ha urtato un Suv. Tutti giù. È la vita quotidiana di 3 milioni di disabili».
Come fare?
«Copiare dagli americani è così difficile? Negli Stati Uniti i bus hanno un’unica pedana meccanica-idraulica, munita di una semplice cerniera: si apre come un libro. Costa meno di 100 dollari. La nostra sofisticatissima pedana con fotocellule costa 25.000 euro».
Che cosa riesce a fare un paraplegico sullo Spirito di Stella?
«Tutto. Salire, scendere, governarlo con la timoneria tradizionale o telecomandata, andare in bagno. Se sto in un ufficio, il mio problema è fare pipì. In Italia devo scegliere i ristoranti in base alla misura delle porte della toilette, almeno 59 centimetri; in America in base al menù e al prezzo. Juan Carlos di Spagna, che è stato sul mio catamarano a Valencia, era sbalordito: “Se si può fare su una barca, perché non nelle città?”. Gli ho risposto: re, lei è un grande! Quelli del cerimoniale mi hanno guardato storto, avrei dovuto chiamarlo maestà. Mi ha spiegato che s’interessa di queste tematiche perché ha una sorella cieca».
Lo Stato italiano fa tanto, fa poco o non fa quasi nulla per i paraplegici?
«Fa abbastanza. Ma non li mette nelle condizioni di diventare contribuenti, anziché assistiti. In Gran Bretagna disabili e svantaggiati vanno a farsi la spesa da soli in motocarrozzella. Da noi diventano un costo sociale per colpa dei marciapiedi, li teniamo prigionieri in casa. Ha notato che negli aeroporti non ci sono gradini? Perché i viaggiatori hanno un trolley da spingere. I disabili valgono meno dei trolley?».
L’espressione «diversamente abile» come le suona?
«Come una minchiata».
Quando stava bene che cosa pensava delle persone in carrozzella?
«Non le vedevo proprio. Pensavo che non esistessero».
Il suo carattere è peggiorato dopo... come devo chiamarla? disgrazia? incidente?
«Fortuna». (Ride). «I miei feritori non sono mai stati individuati. Verso di loro non provo rabbia. Mi verrebbe freddo a pensare di fare l’avvocato, oggi. Sarei un figlio di papà, viziato, con la Ferrari in giardino. Tre mesi fa un bambino mi ha chiesto: “Ma se tu potessi riportare il calendario al 2000?”. Ci ho pensato. Non so se tornerei indietro».
Qual è la sua reazione di fronte a gravi episodi di criminalità comune?
«Siamo in balia del destino. Un automobilista vede un cavallo
scappato dal maneggio, frena d’istinto, il purosangue gli salta sulla capote. Tetraplegico. È accaduto qui vicino, a Monteviale. Il mio amico Gino Tezza smette di fare bob e rafting, perché sono sport pericolosi. Un giorno va in piscina a San Bonifacio col figlioletto, schiva un bambino sullo scivolo, finisce dove l’acqua è più bassa. Tetraplegico. E chi si ammala? Che colpa ne ha? Non posso prendermela col caso».
Non ha avuto paura degli uragani, mentre attraversava l’oceano?
«La bonaccia è peggio. La giungla urbana pure. Col mare forza 9 ti metti in assetto conservativo, riduci le vele e vai avanti. Come nella vita».
Qual è stato il momento più bello della traversata?
«L’ultima alba sopra Key West, ormai in vista di Miami. Dall’aurora fino a quando il sole s’è levato alto sull’orizzonte. Mi sono sentito... Grazie, grazie, grazie a tutti. E un po’ anche a me stesso».
(454. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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