La sfida europea sulle terre rare passa per i vecchi computer

Viaggio nello stabilimento di Ceccano dove Itelyum progetta un nuovo sistema per recuperare metalli dai magneti permanenti

La sfida europea sulle terre rare passa per i vecchi computer

da Ceccano (Fr)

La strada statale 156 non ti aiuta a sognare, neppure se la chiami con il nome meno anonimo di via dei Monti Lepini, lunga e dritta e grigia di casermoni e fabbriche in disuso che scorrono a destra e sinistra come in un videogame da fame chimica e notti senza sonno. È un'arteria che da Frosinone arriva fino a Latina e porta sull'asfalto una lunga serie di disillusioni e fallimenti, di casse del Mezzogiorno svuotate per fare buchi nella roccia e poi ricoprirli.

Questa terra, con la Fiat di Cassino abbandonata dalle stelle cadenti francesi, di industriale adesso sembra avere solo i ricordi. Non è del tutto vero, perché qualcosa c'è, e resiste, e cerca di inventarsi qualcosa di innovativo, di utile, superando anche la miopia di una classe dirigente politica che per anni si è rifiutata di vedere la montagna di ghiaccio all'orizzonte. L'impatto c'è stato e così sia.

Adesso bisogna immaginare un futuro e una traccia è proprio lungo la statale 156, alla periferia di Ceccano, la cittadina ciociara che ha avuto il suo momento di gloria con il barista Bastiano di Nino Manfredi e la Canzonissima del 1958: "Fusse ca fusse la vota bona". Qui c'è una delle strutture di rigenerazione degli oli esausti di Itelyum, uno spazio che ricorda certe caserme militari, dove tutto è ordinato ed essenziale, con il parcheggio coperto che accoglie le auto di dirigenti, colletti bianchi, chimici, ingegneri e operai specializzati e poi, oltre gli uffici amministrativi, gli impianti e i laboratori di un'azienda leader nel riciclo dei rifiuti industriali.

È un esempio importante di economia circolare. È una cittadella di serbatoi e connessioni tubolari. È qui che Marco Codognola, amministratore delegato dell'intero gruppo, ti racconta il progetto che sta cercando di far nascere. Non è un sogno. È l'impresa di recuperare le terre rare dai magneti permanenti. Si può fare, ma servono le autorizzazioni burocratiche, che dipendono dal Mase, il ministero dell'Ambiente, e un quadro normativo che non sia troppo miope.

L'ultima volta vi siete visti al Nord, sulle sponde dell'Adda, camminando dentro uno stabilimento a Casirate, in provincia di Bergamo, per lo smaltimento delle acque industriali. È un punto di raccolta per Lombardia, Emilia, Veneto e il punto di forza è l'ultima vasca di "lavaggio", quella che chiamano "il bambino", quasi un organismo vivente che costa milioni di euro e che vede protagonisti i batteri. Sono loro gli spazzini e si nutrono dei metalli delle acque, trasformandole, questo dopo che una serie di stazioni ha cominciato a depurarle. I batteri, raccontano, fanno esperienza e imparano anno dopo anno a pulire meglio.

Alla fine pensi che a salvare la madre Terra dai mostri che la insidiano non sarà l'utopia millenaria di chi vuole fermare il mondo o spostare indietro il tempo, con un'etica a ritroso e pauperista, ma la scienza, la tecnologia e, in qualche modo, lo stesso capitalismo, cattivo per antonomasia. I batteri spazzini sono figli di tutto questo. Codognola racconta il progetto "terre rare". "Il passo successivo non è solo rigenerare oli o solventi. È lavorare su ciò che domani sarà ancora più prezioso del petrolio: le terre rare". Lo dice davanti a un tavolo di campioni. Piccoli cilindri metallici, lucidi e pesanti. Li prendi in mano e non sembrano nulla di speciale. In realtà contengono elementi come neodimio, disprosio, praseodimio. Senza di loro non esisterebbero turbine eoliche, motori elettrici, smartphone, risonanze magnetiche.

"Questi sono magneti permanenti e li trovi nei rotori dei motori elettrici, negli altoparlanti, nelle auto ibride. Il problema è che oggi il 90% delle terre rare viene estratto e raffinato in Cina. Se domani la Cina decide di chiudere i rubinetti, tutta l'industria mondiale si ferma". Ecco la scommessa. "Noi stiamo studiando un processo per recuperarli a fine vita" continua. "Smontiamo i magneti, li polverizziamo, separiamo i metalli con processi chimici e fisici, e otteniamo materia prima con la stessa purezza di quella estratta dalle miniere. È economia circolare applicata alle tecnologie più strategiche". Gli chiedo se è complicato. Sospira. "È complicato sì, ma non impossibile. Richiede impianti dedicati, procedure di sicurezza, competenze chimiche e metallurgiche. Ma, se ci riusciamo, possiamo ridurre drasticamente la dipendenza dall'estero e creare una filiera europea del riciclo delle terre rare". Nei laboratori, un ingegnere mostra un barattolo con una polvere grigio-scura. "Questo" dice "è neodimio recuperato da magneti di vecchi hard disk". Lo guardi e ti sembra cenere, invece è oro tecnologico. Codognola annuisce. "Oggi li buttiamo, o peggio li spediamo in discariche a migliaia di chilometri da qui. Domani potremmo recuperarli e rimetterli sul mercato. È un progetto che ci piacerebbe sviluppare proprio qui, a Ceccano, come estensione degli impianti esistenti. Un polo europeo per il riciclo dei metalli critici". Fuori, la statale 156 continua a correre tra capannoni vuoti e officine chiuse. Dentro, si parla di una sfida che riguarda il futuro industriale di interi continenti. "Non si tratta solo di business" commenta. "Si tratta di sovranità industriale, perché senza materie prime strategiche un Paese non è libero di produrre. E noi, invece di scavare miniere, possiamo scavare nelle nostre discariche tecnologiche".

L'Europa ci sta pensando, come sempre con i suoi tempi distanti. Non c'è una strategia sulle "terre rare". In Francia c'è un'azienda che si è mossa su progetti simili a quelli di Itelyum, per il resto non c'è fretta. Il problema centrale è come rendere sostenibile, dal punto di vista dei costi, il riciclo delle terre rare. La domanda è sempre la stessa: chi paga? La risposta è nello smaltimento dell'olio. In Italia l'olio lubrificante esausto non è un rifiuto lasciato al caso. C'è una macchina organizzata, silenziosa e capillare, che parte molto prima della raccolta: nel prezzo di ogni litro d'olio nuovo c'è già un piccolo contributo ambientale. Lo versano produttori e importatori, e serve a pagare chi lo ritira, chi lo trasporta, chi lo rigenera. Così l'officina non spende un centesimo per smaltirlo e l'impianto può trasformarlo in nuovo olio, riducendo importazioni e inquinamento. È un'economia circolare a ciclo chiuso: chi produce finanzia il recupero, chi ricicla rivende materia prima, e il sistema si alimenta da solo.

Il progetto sulle terre rare può nascere con la stessa logica. Oggi i magneti permanenti finiscono nei rifiuti, ma potrebbero essere raccolti e rigenerati con un sistema simile: un contributo ambientale su ogni motore elettrico, ogni turbina, ogni dispositivo che li contiene. Alla fine del loro ciclo, squadre specializzate li smonterebbero e impianti come quello di Itelyum estrarrebbero neodimio, disprosio, praseodimio con la stessa purezza dell'estrazione mineraria. Sarebbe un'assicurazione industriale: garantire all'Europa materie prime strategiche senza dipendere da miniere lontane e geopolitiche instabili. Il dubbio è che questo processo parta con un'altra tassa. Non ce ne sono troppe? Codognola lo ammette. "La tassa c'è, ma in questo caso ha un senso. Non è particolarmente pesante e ti garantisce una risposta, parziale certo, alla questione delle terre rare". È lungimirante. È occidentale. È il tentativo di non sottomettersi all'America o, peggio, alla Cina.

Non sai come sarà il mondo tra vent'anni.

Non sai neppure cosa ci sarà in Ciociaria dopo la Fiat. Non sai se ci salverà l'intelligenza antica dei batteri. Una cosa però è certa: non dobbiamo avere paura dei rifiuti. È la vecchia storia dei diamanti, del letame e pure dei fiori.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica