Attacco aereo contro Gaza: uccisi 11 palestinesi

Gian Micalessin

«Fermate a tutti i costi il furgone giallo». L’ordine scatta prima di mezzogiorno e non ammette tentennamenti. Le informazioni arrivano da Gaza. Parlano chiaro. Sul camioncino già in marcia non ci sono i soliti Qassam, ma missili Grad da 122 millimetri. Sono katyusha, ben più precisi dei cento e passa Qassam caduti su Israele in quattro giorni di diluvio. Missili micidiali per colpire e far strage a venti chilometri di distanza. Chi li porta al lancio è Hamoud Wadiya, è il più esperto «tiratore» della Jihad Islamica.
Quando il collimatore digitale aggancia il furgone giallo, Hamoud e il suo secondo sono tra la folla del quartiere di Zeitun, oltre il centro di Gaza. Il primo missile colpisce il marciapiede, Hamoud accelera, si butta fuori strada, finisce tra le case e la folla. Il barbiere Ashraf al Mughrabi è in ritardo. Ha portato i figli sul tetto, li ha fatti giocare con l’aquilone, ha discusso con la madre. Ora corre verso la porta divelta. I figli sono scesi. Urlano terrorizzati. Ne afferra uno. «Non piangere. Vieni dentro». Agguanta l’altro. Una sirena è gia vicina. Barellieri e infermiere saltano giù. Una calca curiosa spinge, s’accalca per vedere.
A quattro minuti esatti dal primo boato l’inferno ridiscende in terra. Il missile stavolta non sbaglia, penetra l’obiettivo giallo. Esplode. Ashraf e il suo bimbo di 13 anni cadono insieme. A pezzi. Nella stessa pozza di sangue. Il secondo è più in là. Dilaniato. Barellieri e infermiere volano via spazzati dalla vampata di fuoco e schegge. Il bomber Hamoud Wadiya e il suo secondo rimasti a vegliare sul loro carico tanto speciale s’inceneriscono al sole. Tutt’intorno sangue, corpi dilaniati, urla disperate, dolore attonito. Nove cadaveri di troppo oltre al «bomber» e al suo secondo. Una ventina i feriti. Troppi anche per un raid giustificato.
La verità fa male, ma non si può negare. È registrata nel video del velivolo che ha messo a segno l’operazione. Il generale Gadi Eisencott, capo delle operazioni dell’esercito israeliano, e i suoi collaboratori l’hanno appena visionato. Ammettono. Il secondo razzo è partito quattro minuti dopo. In quel momento la telecamera non permette di valutare la folla in arrivo. Se ne accorgono mentre il razzo è in volo. Potrebbero deviarne il corso, ma rischiano di colpire ugualmente dei civili. Il missile viene lasciato andare. La strage non voluta, ma terrificante, avviene sotto l’occhio delle telecamere della sala operativa.
«Esprimiamo profondo rammarico per l’incidente - sibila il generale Eisencott - siamo tenuti a garantire la sicurezza di tutti i cittadini d’Israele. Lo facciamo e continueremo a farlo». Stessa identica fermezza nelle parole del ministro della Difesa laburista Amir Peretz, che un’ora prima del sanguinoso raid ha annunciato la fine della parziale sospensione delle operazioni deciso dopo la strage della spiaggia di venerdì scorso. «Nessuna considerazione potrà rimpiazzare il nostro dovere di proteggere i cittadini d’Israele. Nessuno si consideri al sicuro qualsiasi sia il suo nome titolo o organizzazione». Qualche ora dopo il ministro esprime nuovo cordoglio, nuovo dispiacere. Ma per il presidente palestinese Abu Mazen quello è «terrorismo di stato, brutale massacro di civili». Per la Jihad Islamica un altro pretesto per una «durissima risposta». Israele ha condotto ieri anche un altro raid alla periferia di Gaza, a Beit Lahya. Non risulta che ci siano vitime.
Intanto i primi responsi dell’inchiesta sulla strage della spiaggia di Sudanya, venerdì scorso, sembrano risollevare l’onore e il morale degli israeliani. Gli esperti dell’esercito, dopo aver controllato le schegge estratte dai corpi dei civili palestinesi trasferiti in ospedali israeliani, sono certi si tratti di una mina di Hamas. «Abbiamo abbastanza prove secondo cui non è corretto attribuirci la colpa di quanto avvenuto», sentenzia Amir Peretz.
La strage del quartiere di Zeitung non attenua lo scontro intestino tra Hamas e Fatah.

Mohammed Dahlan, consigliere di Abu Mazen, accusa Hamas di «crimini contro il popolo palestinese e incapacità di gestione del potere» e liquida come «un segno del fallimento» le accuse a Fatah di esasperare il conflitto. «Hamas - dice Dahlan - cerca qualcuno da accusare per il suo insuccesso».

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