Per gli attivisti meglio il mare che il loro «impegno sociale»

Caro Granzotto, leggendo i giornali di questi giorni mi viene in mente una contraddizione: ma in questo periodo dov’è tutto l’impegnarsi nel sociale tanto decantato a destra e a manca? Si è accorto anche lei che mentre il mondo sta andando a rotoli nessuno dice niente? In Iran, ad esempio, si impiccano dei poveretti a sette alla volta; la pineta di Roma, invece, va in fumo e mi limito a ricordare solo due dei recenti episodi che contraddicono il vantato impegno della società civile per l’ecologia e i diritti civili. Ma gli attivisti sono andati tutti al mare?


Più o meno, caro Menichelli. E infatti è al mare o fronte mare che l’industria della «sensibilizzazione» si è trasferita. Come risulta dai fatti, incontrovertibili, il 99 per cento dell’«impegno nel sociale» si realizza nel dire, magari urlando. Non nel fare. Oltre ad essere poco «visibile», poco spettacolare, il fare costa fatica, impegno e qualche rinuncia. Il dire, al contrario, non costa nulla ed anzi, è dilettevole. Avrà letto che qualche migliaio di sfaccendati vacanzieri ha accolto l’appello di Tessa Gelisio - presidente dell’associazione ambientalista «forPlanet» e autrice di un ricettario titolato «Pianeta mare», che immagino molto animalista - dandosi appuntamento all’«Aquafan» di Riccione, ovvero in un parco giochi, decisi «a fare sentire la propria voce contro la deforestazione del pianeta».
A parte il fatto che persino quel bamba di Al Gore è stato costretto ad ammettere che caso mai il pianeta si ri-foresta (più il 19 per cento negli ultimi 15 anni), l’impegno ambientalista di quella gente s’è tradotto nel lanciare, all’unisono, un urlo. Che metaforicamente tutto il mondo avrebbe dovuto sentire. Urlato che ebbero, tutti in spiaggia, orgogliosi d’aver fatto qualcosa di positivo, di «forte», per la salvezza del pianeta.
Cambiando «impegno», a Genova, battezzatasi «città dei diritti civili» (come ci sono le città denuclearizzate o de-ogiemmizate), s’è tenuta una sorta di Sagra dei Diritti all’insegna di due slogan, uno più bischero dell’altro. Il primo recita: «Tutti i diritti per tutti». Tutti? Ma come, all’ingrosso? E quali sono, e quanti sono quei «tutti»? Il secondo sembra più concreto e invece è ancora più fesso: «Diritti nella musica». Credo significhi che ogni cantante debba avere il diritto di vincere il Festival di Sanremo o, in alternativa, di Castrocaro. In un clima di «grande mobilitazione e sensibilizzazione», l’«impegno» si e tradotto nell’assistere ai concerti di diversi gruppi quali i Radicicaballanu, Los Aparecidos, il «duo acustico femminile» Mange Tout per non parlare delle Puppini Sisters e dei Banshee (registrata come «formazione post punk con apertura all’elettronica»). Star della impegnata kermesse quel Manu Chao che Federico Fiume dell’Unità così introduceva: «Esempio limpido di artista libero e capace di dare dignità civile e umana, oltre che artistica, al lavoro di musicista».


È andata a finire che, come a Riccione, dopo essersi deliziati alle note dei Raicicaballanu e dei Banshee (per non parlare del limpido Manu Chao), anche a Genova tutti al mare e fine dell’impegno. E gli impiccati a Teheran? Espressione della cultura locale, roba etnica, non ci si impiccia. E il rogo di Castelporziano? Faccenda da pompieri, non da «impegnati nel civile».

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