Aggressione in diretta social: che cos'è il crime livestream

Si tratta di una nuova modalità di comunicazione violenta in cui la telecamera e i social diventano parte integrante del reato

Aggressione in diretta social: che cos'è il crime livestream
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A Milano un giovane di 22 anni è stato accoltellato riportando lesioni gravi che lo hanno reso invalido. Secondo quanto emerso dalle indagini, gli aggressori, dopo averlo ferito e rapinato, hanno pianificato la diffusione dell'azione sui social. “Facciamo una storia su Instagram. C'è un video dove si vede che lo scanniamo”, le parole di uno di loro. Un’aggressione che, dunque, non è più solo un fatto di cronaca, ma diventa una nuova modalità di comunicazione violenta. Un’espressione di sé in cui la telecamera, e la voglia di testimonianza o di esibizione, diventano parte integrante del reato. Si chiama crime livestream, ed è un fenomeno sempre più diffuso.

Che cos'è il fenomeno crime livestream

Il termine “crime livestream” indica quei casi in cui un’azione violenta o un atto criminale vengono ripresi in diretta, o in tempo reale, e condivisi attraverso piattaforme social o streaming online. Non si tratta esclusivamente della semplice registrazione dell’evento: l'elemento chiave è che chi compie il reato sa perfettamente che l'azione sarà vista da altri. E la modalità di pubblicazione diventa parte integrante dell'atto criminale. Un fenomeno in cui i social giocano un ruolo fondamentale. Del resto, diversi studi evidenziano come proprio i social media possano contribuire a “innescare” la violenza nel mondo reale, oppure a trasformarla in contenuto da visualizzare o condividere.

Perché questo fenomeno è in crescita

Diversi fattori contribuiscono alla diffusione di questi video-reato. In primo luogo, le piattaforme social danno visibilità e spesso premiano contenuti che generano reazioni, anche di choc, paura o indignazione. Ad esempio, uno studio dello Youth Endowment Fund ha rilevato che il 70 % degli adolescenti in Inghilterra e Galles ha visto nell’ultimo anno contenuti violenti “real-life” sui social, e che una quota significativa li ha trovati perché le stesse piattaforme li hanno suggeriti tramite feed o storie.

In secondo luogo, la dimensione dell’audience e del pubblico fornisce un incentivo: filmare o trasmettere un’aggressione può dare al soggetto o al gruppo che compie la violenza o il reato una forma di potere, di riconoscimento anche negativo, o semplicemente la percezione di essere “visti”. Anche nelle dinamiche di gang o micro-gruppi, la visibilità online può essere un fattore motivante: come sottolinea un report del Center for Public Safety Initiatives del Rochester Institute of Technology, i social sono utilizzati come strumento pratico per la violenza e la rappresaglia.

Infine, esiste un vuoto di regolamentazione e moderazione tempestiva: le piattaforme faticano a intercettare in tempo reale la diffusione di contenuti violenti, specialmente quando si diffondono attraverso storie effimere o chat private, che poi vengono rapidamente condivise tra utenti.

Quali rischi concreti emergono

Quando un’aggressione assume una dimensione “spettacolare”, i rischi aumentano. Per la vittima c’è il danno fisico e psicologico, ma anche la possibilità che l’evento venga rivissuto o diffuso online, aggravando il trauma. Per la collettività, la normalizzazione della violenza come contenuto può modificare la percezione del limite tra reato e performance. Inoltre, i giovani che vedono ripetutamente video o storie dove la violenza è condivisa o “condivisibile” possono sviluppare una visione distorta della realtà.

Dal punto di vista giudiziario, la presenza di video o messaggi condivisi

dagli aggressori può diventare una prova, ma apre anche questioni complesse sulla responsabilità delle piattaforme, sulla conservazione dei dati e sulla linea tra libertà di espressione e crimine diffuso o promosso online.

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