Quando Pippo Baudo si inventò il primo videogame in tv

Quando in Italia scocca il 1971, Pippo nazionale porta su Rai Uno il più dirompente dei giochi: "La freccia d'oro", autentica antenata delle console

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Fuori si srotola lento il 1971. A fine anno l'Italia avrà un nuovo presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Ovunque, dagli alloggi popolari ai damascati salotti delle ville che appartengono alle elite borghesi, entra la voce limpida di Lucio Dalla. Mina è la sovrana della televisione in bianco e nero. E il paese del miracolo economico inizia a flettersi sotto al peso dell’austerità che verrà. Cominciamo a sentirci moderni, ma nemmeno troppo, tutto sommato: i cestelli delle lavatrici ruotano incessanti nei tinelli, la Fiat 127 colonizza le strade, ma il futuro – quello ambito, elettronico, digitale – è ancora un sogno di silicio. Eppure, proprio allora, in quell'intercapedine sospesa tra il passato e il domani, un uomo di spettacolo inventa senza saperlo il primo videogioco televisivo italiano. Si chiama Pippo Baudo ed è l'imperatore del tubo catodico. E il game, profetico tanto nel nome quanto nello spirito, si intitola La Freccia d’Oro.

Baudo è reduce dal successo travolgente di Sette voci, il programma che ha lanciato nel firmamento televisivo artisti come Orietta Berti e Massimo Ranieri. È giovane, ambizioso, e soprattutto curioso. La Rai gli concede fiducia e spazio, e lui decide di portare sullo schermo un esperimento che oggi potremmo definire un proto-format di gaming show. In scena ci sono un concorrente, una balestra e uno schermo televisivo. La tecnologia digitale è ancora un miraggio, il computer non è apparso, ma si impone un’idea: giocare attraverso le immagini.

Il meccanismo è tanto semplice quanto rivoluzionario. Il concorrente deve mirare a un bersaglio visibile solo sul monitor. Il cameraman – bendato – si muove seguendo le istruzioni del concorrente, che lo guida a voce: “più a destra”, “avanti”, “fermo”, “ora tira”. Sullo schermo scorrono le immagini, il tempo ticchetta, la tensione sale. “Sul monitor si vedono le immagini del bersaglio e del cameraman – spiega Baudo –. Il cameraman è bendato e sarà diretto da voi. Sul teleschermo viene tenuto il tempo”. È, in tutto e per tutto, un videogioco ante litteram: analogico, teatrale, scenografico, ma fondato sullo stesso principio che reggerà decenni dopo l’universo di Pac-Man e Super Mario: l’interazione tra giocatore e schermo.

In quell’Italia ancora in bianco e nero, con il telecomando che è un lusso e la parola “pixel” che non è stata ancora partorita, La Freccia d’Oro anticipa un mondo. In questo contesto si incunea già l’idea di un medium che reagisce, di una televisione non più soltanto da guardare, ma da manovrare. Una macchina narrativa che ammalia, perché concorrenti e spettatori iniziano a sentirsi davvero protagonisti, chiamati ad interagire, a decidere, a sbagliare. Baudo, che della tv conosce ogni pertugio, intuisce che la partecipazione è il vero cuore dello spettacolo. E lo fa, quasi paradossalmente, tramite un gioco di frecce, bersagli e comandi a voce.

La Rai, senza rendersene conto, scrive così una pagina di archeologia dell’interattività. Anni prima di Tennis for Two, prima di Pong, prima che la parola “videogioco” si faccia largo nei dizionari, il servizio pubblico italiano mette in scena una versione analogica di quel che diventerà l’industria dell’intrattenimento del futuro. Un gioco dove l’azione è trasmessa in diretta, e la realtà – la vera, fisica, televisiva realtà – si traveste da simulazione.

La Freccia d’Oro centra il bersaglio per quella freschezza, per la volontà di sperimentare senza paura. In un’Italia che ancora guarda con diffidenza alle “macchine intelligenti”, Pippo Baudo – il conduttore, l’uomo di spettacolo, il volto del varietà – sfodera un format che contiene il sapore di un piccolo miracolo: un gioco in cui l'alta tecnologia non serve, perché la fantasia basta a far materializzare un mondo.

Quella freccia scoccata nel 1971 fende e penetra,

perché è la sintesi di una tv come specchio dei tempi che si evolvono, la curiosità come motore del progresso, e un’idea semplice ma geniale che, prima dei computer e delle console, aveva già intuito tutto.

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