
Io ho visto bambini che vedono più di me. Non con gli occhi, ma con qualcosa che somiglia alla verità. Non cercate la luce nei luoghi ovvi. Cercatela dove manca. Inseguite il buio e scoprirete che è lì, dentro, che nasce il coraggio. Questa non è una storia di sconfitta, è una storia di inizio. Non è nemmeno una favola, anche se ci sono giganti e guerrieri, draghi da combattere e incantesimi da spezzare. E il più giovane cavaliere si chiama Cavallaro. Giuseppe Cavallaro.
Chi nasce con la cataratta congenita non nasce cieco. Nasce immerso in un’opacità che non ha parole, in una nebbia spessa che non permette neppure di riconoscere un volto. La luce esiste, ma è sporcata. Le figure sono un sogno non messo a fuoco. I colori sono presenze dimenticate. Eppure questi bambini imparano a camminare nel mondo come se ci vedessero davvero. Afferrano ciò che noi nemmeno scorgiamo. È come se il mondo glielo raccontassero gli altri sensi. Come se, privati della vista, potessero vedere l’essenziale.
Giuseppe è uno di quei bambini che hanno il passo lieve dei sognatori e la testardaggine dei ribelli. Ha accettato la benda sull’occhio come un compagno di viaggio. Ha lottato con le lenti a contatto come fossero armi da maneggiare con precisione chirurgica. Si è fidato di chi gli stava intorno, ma ha preteso di essere ascoltato. Perché anche un bambino ha diritto a scegliere. Anche un bambino ha il dovere di spiegare cosa sente. E poi, quando ha sentito dire «cataratta congenita bilaterale», non ha pianto: ha alzato lo sguardo, e nel silenzio ha chiesto solo di essere accompagnato, non compatito.
Ma Giuseppe non è solo. “Sul filo dei nostri sguardi” (Rubbettino) è racconto di storie e di vite, scelte dalle famiglie dell’Associazione della cataratta congenita. La storia di Giuseppe si intreccia con quella di Enrico Campatelli, che oggi ha dieci anni e fa parkour come un campione. Quando era piccolo, sua madre vide nelle foto una “palla bianca” dentro l’occhio sinistro. Era la nebbia. Quella vera. Quella che ti cade addosso e ti fa credere che il mondo finisca lì. Ma Enrico ha imparato a saltare sopra gli ostacoli, a riconoscere i bordi, a spingere il proprio sguardo oltre l’apparenza. Ha trovato il modo di guardare avanti, anche quando la luce si faceva nemica.
E poi c’è Mira Pazzaglia, e il suo nome è già una poesia. In sanscrito significa oceano, in slavo pace, in ebraico luce, in spagnolo guardare. Mira ha imparato a leggere il mare prima ancora di sapere cosa fosse una diagnosi. Sua madre le regalò un libro che diceva: “Apri gli occhi e guarda il mare, chiudili forte e non farlo uscire”. E Mira ha fatto proprio questo: ha chiuso gli occhi e ha tenuto dentro il mare, per non farselo rubare. La sua cataratta è stata scoperta tardi, a sedici mesi. Ma in quel ritardo c’era una grazia nascosta: il tempo per imparare a trattenere la bellezza.
Ci sono poi le storie dei fratelli Delia e Diego Ferrero. La loro è una genealogia di tenacia. La mamma, Grazia D’Onofrio, l’aveva avuta anche lei, la cataratta congenita. L’aveva vinta a diciassette anni. Pensava di essersela lasciata alle spalle, ma il destino ha una memoria lunga. E così Delia e Diego si sono trovati immersi nello stesso percorso. Non come condannati, ma come esploratori. I loro genitori hanno imparato a lottare contro l’indifferenza burocratica, contro le diagnosi dette senza cuore, contro medici che dimenticano che prima del male viene il nome. E hanno scoperto, giorno dopo giorno, la forza delle parole giuste. Quelle che curano più del bisturi.
E ancora Tommaso Furlan, che aveva appena settantasette giorni quando il padre vide una macchia grigia nei suoi occhi. Una puntina di polvere nella luce. Da quel giorno ogni visita, ogni attesa, ogni notte è stata una maratona. Ma Tommaso oggi cammina. Vede con la sua imperfezione, che è anche la sua unicità. E sua madre ha imparato a guardare il mondo con occhi nuovi. Perché la maternità è anche questo: una lente che ti costringe a mettere a fuoco l’essenziale.
Questi bambini sono sentinelle. Guardano il mondo con altri occhi, che non sono meno acuti ma solo più segreti. Vedono la fatica, la bellezza, la tenerezza. Vedono ciò che gli altri dimenticano: che la felicità è una conquista quotidiana, una lente da mettere ogni mattina. Che la libertà ha spesso le sembianze di una benda ben tollerata o di un sorriso ostinato.
Cavallaro non è un caso. È un esempio. È un nome da ricordare ogni volta che pensiamo che non ce la faremo.
Perché c’è un tempo, nella vita, in cui smetti di essere un paziente e diventi un protagonista. Un tempo in cui la debolezza diventa potenza. E il buio, finalmente, smette di fare paura. Perché qualcuno, da dentro, ha imparato a vederci benissimo.