Il recente caso della pizzeria bergamasca multata per aver inserito nel menù la dicitura “grana vegano” ha riacceso un tema che va ben oltre la cronaca locale: quello della tutela della nostra identità gastronomica.
Non si tratta di una guerra ideologica contro il mondo vegano, che ha tutto il diritto di proporre alternative e innovazioni. Il punto è un altro: il rispetto dovuto a uno dei prodotti più antichi, simbolici e preziosi della cultura alimentare italiana, il Grana Padano, che proprio quest’anno compie 890 anni. Le sue origini risalgono al 1135, nell’Abbazia di Chiaravalle, vicino a Milano, quando i monaci cistercensi elaborarono un metodo geniale per conservare il latte in eccesso sotto forma di un formaggio duro, asciutto, dalla pasta “granulosa”. Lo chiamavano “caseus vetus”, formaggio invecchiato. Il popolo, affascinato da quella consistenza caratteristica, iniziò a chiamarlo semplicemente “grana”. Da allora, per nove secoli, quel nome non ha mai voluto dire altro: un formaggio ottenuto con tecniche precise, con una lunga stagionatura, con un disciplinare severo e con una tradizione radicata nei territori della Pianura Padana.
Oggi il Grana Padano è una delle DOP più conosciute, imitate e protette d’Europa. Attorno a questo prodotto ruota una filiera che coinvolge migliaia di aziende agricole, caseifici, consorzi e famiglie che da generazioni tramandano saperi antichi. Difendere il nome “grana” significa difendere il lavoro di queste persone, la storia del territorio, la qualità certificata, la trasparenza verso il consumatore. Ecco perché utilizzare quella parola per indicare un prodotto vegetale pur senza malizia, pur con leggerezza rappresenta un errore culturale e comunicativo.
Non è una questione di gusti o di abitudini alimentari: è una questione di correttezza. Il termine “grana” richiama subito un immaginario preciso fatto di caldaie di rame, tecniche medievali sopravvissute intatte, controlli rigidi, lunghi mesi di maturazione. Quando quel nome viene attribuito ad altro, il rischio è duplice: da un lato si confonde il cliente, dall’altro si svilisce un prodotto che porta sulle spalle quasi un millennio di storia.
L’Italia è un Paese costruito sulla sua memoria gastronomica: ogni ricetta, ogni formaggio, ogni tradizione racconta un frammento della nostra identità.
Il Grana Padano è parte integrante di questa memoria collettiva. È nato quando i comuni lombardi si contendevano il potere, quando la Pianura Padana era un mosaico di monasteri e campi coltivati. Ha attraversato i secoli, le epidemie, le guerre, la modernizzazione, senza mai perdere la sua essenza originaria. Per questo merita rispetto. Non rispetto astratto o retorico, ma rispetto concreto: quello che passa dalla cura dei nomi, dalla protezione delle denominazioni, dalla consapevolezza di ciò che un prodotto rappresenta.
I prodotti vegetali hanno tutto lo spazio per crescere, evolversi, conquistare palati e mercati. Nessuno mette in dubbio la loro dignità. Ma l’innovazione non può mai diventare sinonimo di appropriazione. Non si può chiamare “prosciutto” una fetta di barbabietola né “grana” una farina di ceci. È una questione di trasparenza, di onestà, di cultura. E soprattutto è una questione di tutela. Perché se iniziamo a piegare il linguaggio, il patrimonio gastronomico italiano diventa più debole, più confuso, più vulnerabile.
Il Grana Padano non è soltanto un formaggio: è un simbolo di continuità, un ponte tra Medioevo e presente, un racconto intessuto di lavoro, territorio, ingegno. Proprio per questo dobbiamo proteggerlo da qualsiasi forma di banalizzazione linguistica. Difendere il suo nome significa difendere ciò che siamo. Significa ricordare che l’eccellenza non nasce per caso, ma si costruisce attraverso secoli di cultura, di ricerca, di perfezionamento. Oggi che compie 890 anni, il Grana Padano continua a essere una delle colonne portanti della nostra identità alimentare.
E merita che lo si tratti con la stessa cura, serietà e precisione con cui i monaci di Chiaravalle iniziarono a produrlo quasi nove secoli fa. Innoviamo pure, sperimentiamo pure, ma senza confondere, senza svilire, senza dimenticare. Perché la storia soprattutto quella buona, quella che possiamo assaggiare non si tocca.