
Marcel Proust scrisse il più grande romanzo di tutti i tempi, Alla ricerca del tempo perduto, sul passato, su ciò che siamo grazie ai nostri ricordi, i quali riemergono perfino involontariamente. A Proust si collegò un altro gigante, Samuel Beckett, però a Beckett arrivo dopo. Intanto ora pare che anche i neonati ricordino, lo dice una ricerca di Yale, pubblicata su Science, con tanto di risonanza magnetica funzionale fatta a bambini svegli mentre guardano immagini di volti, oggetti, scene. Gli scienziati sono Nick Turk-Browne, neuroscienziato, e Tristan Yates, psicologo cognitivo, che portano uno studio per dimostrare che il loro cervello funziona già nei primi 12 mesi, registra, come un registratore acceso in una stanza vuota. Il problema non è scrivere, è rievocare: cioè, io ricordi ci sono, solo che non li troviamo più (anche perché non sono utili al nostro cervello).
Si dava per scontato che del nostro essere neonati non si ricordasse niente perché il cervello, da piccolo, era immaturo, e che l’ippocampo ci mettesse anni a imparare a fare il suo mestiere. Invece era già operativo, siamo noi che non sappiamo ancora come tornare indietro, come se la nostra infanzia prima dei tre, quattro anni fosse stata salvata su un vecchio floppy disk e non avessimo più il lettore.
Freud aveva già trasformato l’amnesia infantile in mito, e prima di lui Caroline Miles, nel 1893, aveva fatto domande ai bambini tipo “Qual è la prima cosa che ti ricordi?” e la risposta era sempre la stessa: da tre anni in su, e solo se era successo qualcosa di strano, fuori dall’ordinario, tipo un cane che morde, un fratellino che nasce, come se la memoria avesse bisogno di uno strappo per iniziare a cucire qualcosa. Nessuno ricorda la normalità, il vuoto è troppo liscio per restare attaccato alla mente. Mi ricordo di uno psicologo che mi chiese: «Ha avuto traumi infantili?». Risposta senza neppure pensarci due volte: «Uno solo, essere nato». «Non può ricordarselo». «Evidentemente no, ma devo essere nato per forza, che dice?».
E quindi io, tu, chiunque, non siamo mai stati bambini. Non per noi stessi, almeno. Solo per gli altri. Per i nostri genitori, per le fotografie in cui ci guardiamo come oggetti. La soggettività arriva tardi. Prima siamo solo occhi, urla, latte. Non è che non fossimo vivi. Solo che non c’eravamo ancora.
Tuttavia c’è questa faccenda dell’apprendimento statistico: i neonati non memorizzano eventi singoli, ma schemi, ricorrenze, ripetizioni, un po’ come se fossimo stati piccoli algoritmi emozionali, già pronti per il burnout. Ricordiamo l’odore di una stanza, la voce che torna sempre, l’ombra che passa ogni giorno alla stessa ora: per Proust il sapore della madeleine apre universi interiori. Non cosa è successo, ma cosa succedeva spesso, e questo basta a creare l’illusione di una continuità.
Alla fine tutto si riduce a questo: se non ricordo, non è mai successo. Non è vero che siamo la somma dei nostri ricordi, siamo ciò che possiamo richiamare alla mente. Il resto è sparito, forse c’è, ma non parla più la nostra lingua, e quindi è come se non fosse mai esistito. Come se io, nella mia prima versione, fossi stato reale solo per gli altri. E per me stesso, mai.
Giorgio Vallortigara, appena rientrato da Londra per una conferenza, a proposito di questo studio, mi dice: «È la solita storia, i ricordi ci sono solo che non li recuperi». Giorgio cita spesso il racconto di Borges Funes il memorioso, per sottolineare i limiti della memoria assoluta in opposizione al mito che “ricordare tutto” sia un vantaggio. Ne La mente degli animali (Adelphi) Vallortigara scrive: «Borges, in un celebre racconto, parla di Ireneo Funes, capace di ricordare ogni singolo dettaglio della nostra esperienza, senza dimenticare nulla. Ma questa facoltà è un dono: Funes non riesce a pensare. Ogni sua percezione è unica, irripetibile, impossibile da generalizzare. Non può costruire concetti, perché ogni foglia, ogni nuvola è per lui diversa da tutte le altre».
A me viene, sul rapporto tra ricordi e l’essere ciò che siamo nel momento in cui pensiamo a noi stessi, viene in mente invece non solo la Recherche di Proust ma, come dicevo, appunto, Samuel Beckett ne L’ultimo nastro di Krapp. Per chi non conoscesse il personaggio beckettiano, Krapp era un signore che voleva mantenere integra la sua identità, perché la nostra identità è formata appunto dai nostri ricordi, e iniziò a registrarsi fin da giovane ogni giorno, accumulando milioni di nastri. Ma quando da vecchio decise di ascoltare i primi nastri restò atterrito, non si riconosceva, stava ascoltando un estraneo: se stesso. In fin dei conti il senso profondo di questo studio potrebbe essere esteso anche alle fasi della vita: ricordi vengono selezionati, altri diventano inaccessibili, e solo per i ricordi che ricordiamo diciamo ancora “io”.
Così quando vediamo una nostra foto, perfino di noi neonati, diciamo “io”. Dimenticare è fondamentale per pensare ma anche per illuderci di essere sempre la stessa persona. A Krapp non resta che ripetere: «Non c’è niente da dire, non c’è niente da dire…».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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