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Nel tempio del tatuaggio milanese di Gianmaurizio Fercioni

Reportage sullo studio (e sul museo) della famiglia Fercioni. L'appello al comune affinché possa essere salvato

Nel tempio del tatuaggio milanese di Gianmaurizio Fercioni

Quando si entra nello studio di Gianmaurizio Fercioni, il primo tatuatore in Italia, si viene inghiottiti da una vecchia nave. Pareti rivestite in legno, sirene appese al soffitto e una vecchia stufa di ghisa che emana un calore intenso, impossibile da raggiungere per qualsiasi termosifone. È un altro tempo. Un altro mondo. La famiglia Fercioni è al completo: Gianmaurizio, ovviamente, la moglie Luisa Gnecchi Ruscone e la figlia, Olivia. Sono mesi difficili per loro: da qualche tempo, infatti, hanno ricevuto la notizia che il loro studio non potrà più rimanere lì, in via Mercato, e sono alla ricerca di un altro luogo dove poter continuare a tatuare ma, soprattutto, dove poter spostare il museo che, nel corso dei decenni, hanno costruito. Poco alla volta. Pezzo dopo pezzo. In esso c’è di tutto: dai timbri che i crociati usavano per tatuarsi fino ai disegni dei più importanti tatuatori giapponesi, passando per le immagini degli splendidi corpi maori. “A partire dal 30 di marzo non avremo più questo spazio”, spiega Luisa. “Stiamo cercando un’alternativa, perché altrimenti ci toccherà smembrare e vendere il museo. Il comune non comprende che per noi è d’importanza capitale non solo continuare a tatuare, ma anche mantenere il museo. E questo non solo per noi ma anche per la città stessa di Milano: nel mondo, infatti, ci sono pochissimi musei del tatuaggio e sono tutti più piccoli di questo. Milano è la mia città, per questo ci tengo particolarmente. Ma non solo: Milano è una città internazionale e il tatuaggio fa parte della cultura mondiale. Non può perderlo”.

Apparentemente, è strano vedere accostate le parole tatuaggio e cultura nella stessa frase. Il pregiudizio è ancora forte e, talvolta, è rafforzato anche da certe brutture che si vedono in giro: colate di nero su collo e braccia in primis. Ma il tatuaggio che viene fatto in casa Fercioni è quello tradizionale. O old school, come viene chiamato. E ha delle regole ben precise. Ci racconta Olivia sorridendo: “Qualche giorno fa sono stata contattata da una persona che desiderava un tatuaggio. Io l’ho disegnato, poi mi sono state fatte delle richieste per modificarlo e mi sono resa conto che quei cambiamenti lo rendevano davvero brutto. Non per me, ma oggettivamente brutto. E io non posso fare un tatuaggio, che dura per sempre, brutto”.

All’ingresso dello studio, inoltre, è presente un cartello che recita chiaramente: “Non si tatua in faccia, sulle mani e sotto i piedi”. E su questo Gianmaurizio è molto chiaro: “Non ho mai tatuato mani e faccia perché un tatuaggio in questi punti può creare problemi di lavoro, di comportamento e di atteggiamento. Un cameriere con le mani tatuate può creare disagio, sia per il tatuato sia per il cliente”. E Luisa puntualizza: “Il tatuaggio non deve togliere libertà, se mai la deve dare”. E questo concetto va di pari passo con una cultura del tatuaggio. Una cultura vera, che non si lascia conquistare dalle mode del tempo: “Purtroppo, oggi, anche i tatuatori sanno veramente poco della storia del tatuaggio”, aggiunge Luisa. “Ma se andiamo ad approfondire un po’ questo argomento, scopriamo che il tatuaggio è considerato dagli antropologi il primo gesto cosciente con cui l'uomo si è differenziato dal mondo animale. In Italia, inoltre, abbiamo una storia molto importante perché abbiamo la più antica mummia tatuata al mondo, che è Ötzi, che ha 62 tatuaggi. Abbiamo i tatuaggi dei pellegrini. Abbiamo Cesare Lombroso che ha studiato i tatuaggi dei criminali tra l’Otto e il Novecento. Abbiamo un tatuaggio, chiamato segno di Caino, che nasce con le corporazioni degli Artigiani. E potrei andare avanti a lungo”.

“Quella che si è persa”, ci spiega Gianmaurizio, “è la ritualità del tatuaggio. Quando ho aperto il mio primo studio c’erano già molte persone interessate, anche se il tatuaggio all’epoca era ancora visto come un fatto di penitenziario. Però ho sempre lavorato molto. Buona parte della fruizione era data da gente di modesta estrazione ma anche da borghesi e aristocratici, come Amedeo d’Aosta. Nessuno sa, ma anche Agnelli aveva un tatuaggio sull’avambraccio. Chi si tatuava una volta, esibiva il tatuaggio in maniera discreta ed intima”. Ma, prima di congedarci, Luisa tiene a puntualizzare: “I vecchi tatuatori dicevano che il vero bravo tatuatore è colui che riesce a far apparire sulla pelle quello che già c'è sotto.

E il tatuaggio va vissuto così: scrivere qualcosa di sé sulla propria pelle”.

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