La protesta dei giornalisti di Repubblica contro la vendita di Gedi non è una battaglia per la libertà di stampa. È qualcosa di più rivelatore e più sgradevole: un caso da manuale di bullismo intellettuale. Un ceto che si sente superiore, che teme di perdere il controllo del recinto, e che reagisce come reagiscono sempre i bulli acculturati: non alzando la voce ma il sopracciglio, non discutendo ma certificando chi è degno e chi no.
L'editoriale di Luigi Manconi, che peraltro ho sempre apprezzato per il garantismo senza slabbrature, è esemplare. Non entra davvero nel merito della vendita, non discute i conti, la crisi strutturale dei giornali, il declino evidente di Repubblica. Manconi fa altro, e lo fa con eleganza impeccabile: giudica lo stile, la cultura, il gusto. Si pone come arbiter elegantiae della sinistra à la page, e da quella cattedra guarda infastidito tutto ciò che non gli somiglia. Il problema, per lui, non è l'editore greco, ma l'idea che un quotidiano dove lui scrive possa piacere a chi non è autorizzato a piacergli.
L'idolo negativo evocato è Mara Venier, la quale non è maltrattata per le sue idee, che Manconi non ritiene neppure abbia. Colpa gravissima: piacere alla gente. Peggio ancora, essere chiamata zia. Zia Mara. Un diminutivo affettuoso, popolare, imperdonabile. Per questa sinistra la confidenza è un reato culturale. Se piaci a troppi, sei sospetto. Se entri nelle case senza mediazioni, sei volgare. Qui il bullismo intellettuale si mostra nella sua forma più pura: non si critica un contenuto, si spregia un gusto; non si confuta un'idea, si umilia una popolarità.
Accanto al bullismo elegante di Manconi c'è quello più rumoroso, tonitruante, incarnato da Massimo Giannini, che da La7 tiene concioni serali come se fosse il custode ultimo della democrazia occidentale. Sale in cattedra,
agita l'indice, distribuisce assoluzioni e scomuniche, convinto di essere il nuovo Scalfari. In realtà Scalfari non si imita: si studia, e semmai gli si bacia il calcagno. Scalfari aveva una visione, un'ossessione, persino un'arroganza, ma era sorretta da un pensiero. Giannini confonde la predica con l'editoriale e l'indignazione con la profondità. È il megafono del bullismo culturale: più volume, meno idee.
È lo stesso spirito che anima la richiesta surreale che la sinistra pretende dal governo: una golden share per impedire la vendita del giornale, come se Repubblica e Gedi non fossero un quotidiano e la sua rispettabile azienda in crisi, ma un bene spirituale, con la sua rosa purpurea di scribi intangibili, da proteggere con i cavalli di frisia dello Stato. Per accostarsi a questa ostia consacrata occorre per loro l'esame del sangue, il certificato di battesimo e di cresima ideologica, il certificato di appartenenza alla razza eletta dei democratici da sfilata o almeno da benedizione di Corrado Augias. Un greco? Per carità. La memoria galoppa nelle praterie incantate e furenti del loro '68, per questi eterni reduci dei loro sogni. Ma certo, un greco è un colonnello, un golpista, un alleato del fascismo vincente. E se poi il nuovo corso dovesse piacere alla gente sbagliata, sarebbe la fine della civiltà.
Qui torna alla mente inevitabilmente Monicelli e il suo Vogliamo i colonnelli, ispirato a una scritta neofascista sui muri di Roma, e di controbalzo allo slogan che lessi sui muri di Milano: «Agnelli e Pirelli vogliono i colonnelli, ma non hanno fatto i conti con gli studenti». Che rime, che cultura, che nostalgia. La sinistra intellettuale, vecchia come il cucco, insiste a truccarsi da ragazzina utopista ma sicura del gruzzolo, convinta di essere ancora l'avanguardia morale contro poteri oscuri, mentre in realtà difende soltanto il proprio recinto sociale.
Diciamolo senza ipocrisia: Repubblica è in malora. Il declino vale per tutta la carta stampata, certo, ma per Repubblica di più. Morto Scalfari, quiescente in Svizzera De Benedetti, ci tocca sorbirci Concita De Gregorio come coscienza critica da pasticceria viennese. È il destino dei giornali che smettono di raccontare il mondo e iniziano a dare voti di maturità morale ai (non) lettori.
Mi torna in mente Piazza Navona, 2002. Nanni Moretti ascolta Rutelli, Fassino, D'Alema e altri capi dell'Ulivo, poi emette la sentenza della crème: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Oggi con Schein e Conte va pure peggio. Ma la crème è rancida. Con questi intellettuali non vinceranno mai. Perché amano il popolo dei loro vaneggiamenti, e detestano la popolazione che esiste alla facciaccia loro. Cercano di emendarla ritenendola un errore di stampa. Risultato: se ne stanno pasciuti e incompresi, convinti di essere Einstein o almeno Popper circondati da somari da rieducare con gli editoriali.
E qui vale la pena ricordare una definizione che all'epoca parve cattiva ma che oggi suona quasi sociologica. Massimo D'Alema li chiamò iene dattilografe. Non perché feroci, ma perché si nutrono di ciò che disprezzano. Dattilografe perché ripetono, certificano, timbrano. Sempre dalla parte giusta, mai dalla parte del dubbio.
La crisi di Repubblica non
nasce dalla vendita. Nasce da questo bullismo che ha sostituito il pensiero con il pregiudizio, la cultura con la superiorità. Quando un giornale arriva a disprezzare la gente, è già finito. Coraggio, che magari si cambia.