
«Guardi don, non saprei proprio. Faccia lei un po' dell'uno un po' dell'altro. Niente di che. Un mix direi!». Quando ti trovi in confessionale qualcuno che ti dice così, che fai? Mi sono sentito la sciura dell'oratorio alla quale da bambino chiedevo le caramelle. Purtroppo ora non ci sono quasi più né le caramelle sciolte, né le volontarie, né gli oratori. Al brillante cinquantenne, vestito trendy, con aria solare tendente al furbetto ho risposto: «Allora io direi di fare un bell'omicidio, qualche furto, delle molestie, abbondiamo un po' con le menzogne e poi ci mettiamo pochettino di bestemmie e una manciata di Messe saltate che ne dice: va bene? Lascio?». Resta basito. Con occhi sgranati e voce ingozzata e un po' stizzita ribatte: «No! Ma come?! Direi che ha esagerato! Ucciso non ho ucciso, rubato non ho rubato, molestie proprio no! Lei è eccessivo!».
Già, quindi, data la risposta, oltre all'aspetto religioso (su cui bisognerebbe aprire una parentesi e mi sa che lo farò la prossima settimana), con le menzogne ci ho azzeccato? A parte il fatto che non si uccide solo con la pistola e il coltello ma anche con le parole e con gli atteggiamenti; che non c'è solo il furto con scasso ma si ruba anche la pazienza, il tempo, l'attenzione e a volte persino l'amore degli altri; che non si molestia solo sessualmente ma anche familiarmente con atteggiamenti ossessivi possessivi aggressivi, credo che il punto cruciale su cui si debba porre l'attenzione sia la mancanza di sincerità non solo verso gli altri, o peggio verso Dio, ma innanzitutto
e soprattutto verso se stessi. Il problema non è tanto e solo cosa si dice in confessionale, ma cosa si ammette a se stessi. Nel Vangelo c'è una bellissima frase di Gesù: «La verità vi farà liberi». È un criterio che vale sia per chi è credente, sia per chi è laico: È una logica non tanto religiosa quanto pedagogica: il perdono può esserci solo se si ammette la verità. La sapienza antica della Chiesa insegna a chiamare le cose con il loro nome, a dire che il male è male, che il brutto è brutto. Doverlo dire al prete salva da due rischi opposti: quello di sminuire (cosa vuoi che sia) e quello di ingigantire (di chi non si accetta e si logora). Obiettivizzare serve a chiarire, a dare il giusto peso, ad affrontare, a trovare una possibile soluzione. E il sacro dov'è allora? È nascosto nel termine «perdono». A me piace la teoria (non so quanto corretta però) che fa risalire la parola a «iper-dono», il dono più grande, proprio perché non ci sono alibi che scusano o motivazioni che giustificano. Il perdono è «il regalo più grande» proprio perché non è meritato. Questo è divino. Ammettere con verità e sincerità una colpa, una mancanza, una fragilità, uno sbaglio è terapeutico. La malattia per essere curata va prima diagnosticata. Se un medico dicesse a un malato: «Ma si figuri! non è nulla», non fa il suo bene e non lo porterebbe alla guarigione, anzi sarebbe solo causa di peggioramento e forse del peggio.
Perdonare non è far finta di niente, ma è proprio il contrario: è riconoscere l'oscurità del male e illuminarla con la luce
della verità. Solo partendo da qui si può percorrere una via d'uscita: analizzo, vedo quello che si può fare, misuro le forze e i condizionamenti, valuto le fragilità, poi scelgo come reagire. Il bene agisce innanzitutto tracciando i confini del male, dandogli dei limiti. Se io chiedo scusa per qualcosa, anche con sentimento, ma in realtà ho fatto altro, non può esserci perdono. Quello che nascondo o non metto alla luce pienamente, non può essere illuminato. Se io mi dispiaccio per degli avvenimenti ma non identifico la causa, tampono il sintomo ma lascio correre la malattia. È inutile piangere sul latte versato se non si è decisi ad andare a vedere da che parte c'è il buco nella scatola che lo sta facendo uscire. Charles Reade, scrittore e drammaturgo inglese di fine '800, ammoniva: «Continuiamo a illuderci che tutti pensino a noi, ma non è vero. Gli altri sono come noi: pensano a se stessi. Se desideri piacere a qualcuno, inizia cercando di capirlo.
Semina una parola e raccoglierai un'azione, semina un'azione e raccoglierai un'abitudine, semina un'abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino».Aveva proprio ragione Gesù: qualsiasi sia il misto delle fragilità vissute o causate o subite, solo seminando la verità si è liberi.