L'impresa eccezionale

Dalle abbazie alla grande distribuzione: la sfida del gigante della birra

Il sogno del più grande birrificio al mondo? Un futuro con più brindisi, ovviamente. La sfida di AB InBev, società globale nel proprio settore, merita d'essere raccontata

Dalle abbazie alla grande distribuzione: la sfida del gigante della birra

Il sogno del più grande birrificio al mondo? Un futuro con più brindisi, ovviamente. Cheers! In alto i boccali. La sfida di AB InBev, società globale nel proprio settore, merita d'essere raccontata. Da una parte ci sono infatti i numeri monstre di una realtà che traina la categoria, dall'altra c'è la volontà di offrire un prodotto con alti standard organolettici. Le due direttrici sono strettamente correlate, come si evince dalla strategia intrapresa dall'azienda belga. "Essere i primi sul mercato non basta. Cerchiamo sempre di offrire ai nostri clienti nuove esperienze positive di consumo, ispirate dal gusto del bere responsabilmente", ci spiega al riguardo Arnaud Hanset, amministratore delegato e country director del gruppo per l'Italia. Se la birra prodotta piace, i risultati su larga scala arrivano di conseguenza: nel 2022, i ricavi globali sono cresciuti dell'11,2%.

Il mercato italiano della birra

A contribuire al dato sono stati anche i consumatori italiani, ai quali l'azienda offre alcune delle birre più note della grande distribuzione tra cui Corona, Leffe, Stella Artois e Beck's. Il dettaglio è interessante e non tanto per motivi campanilistici: quella tricolore è infatti una piazza con discreti margini d'espansione e di contendibilità. Gli italiani in media bevono 30 litri di birra l'anno, meno rispetto a quanto accade in altri Paesi europei. "Abbiamo spazio per crescere ancora di più e migliorare", confida Hanset a ilGiornale.it, spiegando come i nostri connazionali prediligano birre di qualità, premium e superpremium. Il colosso belga presidia difatti proprio quella fascia, puntando su un elemento che per la platea nostrana è imprescindibile, quasi identitario: quello della convivialità.

Tra pilastri e una strategia aziendale

In particolare - ci rivela il top manager della multinazionale - in Italia la scelta è stata quella di pensare alla birra come a un accompagnamento al buon cibo, che fa parte della nostra cultura. Non a caso, l'azienda ha "arruolato" lo chef Roberto Valbuzzi come ambassador di Leffe, uno dei suoi brand. A testimoniare l'interesse di AB InBev per il nostro Paese, anche il fatto che nel 2020 il gruppo abbia spostato la propria sede italiana da Gallarate a Milano, per essere ancor più nel cuore del business tricolore. "Pensiamo che in Italia ci sia un'opportunità veramente grande per la categoria e anche l'estate alle porte offre già prospettive molto buone, con una ripresa del turismo...", prosegue Arnaud Hanset, che a più riprese ci ripete i tre pilastri sui quali si regge la strategia aziendale sul lungo periodo: "guidare e far crescere la categoria, digitalizzare e creare valore per il nostro ecosistema, ottimizzare il nostro business".

Artigianalità e grande distribuzione

Tali orientamenti - spiega Hanset - valgono sia per l'Italia, sia a livello globale. L'approccio è glocal. Ma, visto che la storia di cui trattiamo affonda le sue ideali radici nel Belgio del XIII secolo (quando le birre venivano prodotte dai monaci nelle abbazie), la domanda sorge spontanea: come può una multinazionale conservare lo spirito genuino e artigiano di quella antica tradizione? Lo abbiamo chiesto direttamente al top manager, che ci ha risposto con convinzione proprio davanti a un boccale di birra appena spillata. "Tutte le nostre birre sono fatte con ingredienti naturali al 100%, che sono sempre gli stessi oggi come allora: acqua, malto d'orzo, luppolo e lievito. Fare una buona birra prodotta su grande scala, però, è quasi più difficile che farlo su una produzione più piccola, perché dobbiamo sempre mantenere la stessa qualità alta. Questo è abbastanza sfidante, ma con i nostri maestri birrai ci riusciamo ogni giorno".

L'arte della spillatura e i burocrati Ue

Peccato solo che l'antica tradizione birraia sia oggi mortificata da chi, in Europa, vuole apporre un'etichetta nera agli alcolici come stigma di pericolosità, mettendo erroneamente sullo stesso piano quantità e qualità. Un'assurdità che certo non piace ai produttori più attenti alle materie prime e agli standard qualitativi. "Crediamo che cambiare le etichette non sia il giusto percorso. Proviamo invece a educare il consumatore alla cultura del bere bene e responsabilmente, lanciando così un messaggio positivo", insiste Hanset al riguardo. Dietro al boccale di birra servito al bancone di un bar ci sono infatti una cultura e una manualità da tutelare. "L'arte della spillatura prevede nove passaggi che noi suggeriamo sia ai gestori dei locali sia ai clienti, così che possano gustare una birra alla qualità migliore possibile".

Ma vallo a spiegare a certi burocrati europei.

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