Ma il bamboccione-guru per favore no

Tra le disgrazie ricorrenti nella storia dell'umanità, una delle più fastidiose è il fiorire dei nuovi maître à penser, i quali tanto più sono insopportabili quanto più sono giovani, e come tali spocchiosi (il giovane è stolto - dice la Bibbia - ma la correzione del bastone lo raddrizzerà): pur essendosi appena affacciati alla vita vera, parlano come se i miliardi di bipedi che li hanno preceduti sulla Terra non abbiano mai capito niente, della vita; e meno male che ora sono arrivati loro a spiegarcela.
Ogni epoca, dicevamo, ha i suoi molesti maestrini di vita: negli anni Settanta c’erano i Sofri e i Capanna, per verificare le sciocchezze dei quali basterebbe sfogliare i giornali di allora. Ma siccome il mondo procede in modo tale da darci sempre qualche motivo per rimpiangere il passato, ecco che Sofri e Capanna (soprattutto il primo) appaiono ora come dei giganti del pensiero a confronto dei professorini che ne hanno raccolto il testimone.
Se negli anni formidabili il predicatore-tipo era infatti il rivoluzionario, oggi è il bamboccione. Il primo si riempiva la bocca di parole come «impegno»; il secondo teorizza il «disimpegno».
Prototipo del guru-bamboccione è di questi tempi Fabio Volo, un trentacinquenne (età che un tempo non dava diritto ad essere nel novero dei «giovani»: ma è il progresso, cari lettori) un trentacinquenne, dicevamo, cui l’Onnipotente, o chi per Lui, ha dato talenti sufficienti per essere al tempo stesso cantante, conduttore radio e tv, attore e scrittore di successo. Tutte cose che Volo fa benissimo, e senza che abbia dovuto frequentare studi particolari. Anzi: ha abbandonato, in terza media, anche quelli ordinari. Ma, dicevamo, il talento ce l'ha per grazia ricevuta, e di questo non gliene facciamo una colpa, anzi chiniamo la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui, del Creator suo spirito, più vasta orma stampar.
Chapeau, dunque, al cantante attore e scrittore Fabio Volo. Ma proprio perché ha già abbastanza successo in tanti campi, dovrebbe astenersi dal cercarne anche in quello, a lui non congeniale, di maestro di vita. Invece, forte dei brillanti risultati in classifica del suo nuovo romanzo, Il giorno in più, Volo sta ammorbandoci con una serie di interviste nelle quali spiega quanto siano idioti tutti quei poveracci che la mattina vanno in ufficio o in fabbrica a lavorare perché - meschini - a fine mese hanno bisogno dello stipendio; e quanto siano idioti pure tutti coloro che prendono moglie e fanno figli, e con moglie e figli convivono pure. Da compatire, anzi da schifare un po’, sono anche queste vittime del sistema che si ostinano a passare la vita nella stessa città o paese, mentre lui fa il bamboccione girovagando tra Barcellona, Parigi, New York. «Ma sa dov’è che si impara di più? - ha detto ieri a Egle Santolini de La Stampa - Nei viaggi. Perché bevi in una tazza diversa, parli in una lingua non tua, nessuno ti conosce, sei eccitato e ricettivo». Ah, già, i viaggi: chissà perché non ci hanno pensato anche i sei operai morti nell’incendio di Torino, o più semplicemente quelli che ogni giorno tirano la lima.
Volo - che grazie ai talenti e al successo non fatica certo a far conquiste - ci spiega poi qual è il vero modo per amare. A Vanity Fair, la scorsa settimana, ha detto: «Nel libro parlo della condivisione di due vite, una per ciascuno, al posto della convivenza. Farei fatica ad aprire la porta e a trovare qualcuno in casa». E ancora: «Va bene fare figli, ma ognuno a casa sua». E siccome farebbe «fatica» a trovare qualcuno in casa, e poiché riesce difficile pensare che i bambini possano vivere da soli, si presume che la Volo-filosofia contempli la donna sola a smazzarsi i pupi, col papà-bamboccione che non c’è neanche di notte a dare il biberon. Insomma: non una botta e via ma, peggio ancora, uno stare insieme ognuno a casa sua. «Il problema - si duole però Volo - è che le donne sognano ancora la famiglia tradizionale: tutti sotto lo stesso tetto. Un modello che ha fatto più danni della bomba atomica». Chissà che cosa ne penseranno i suoi genitori, che sono stati insieme quarant’anni, con il babbo che si alzava di notte a fare il pane.
Fabio Volo rimprovera al collega Linus di «non prendere la metropolitana e di non salire sul bus», quindi di non conoscere la vita della gente comune: io sì, aggiunge, «vivo una vita normale». Ma quale vita normale. Baciato dalla Provvidenza, Volo faccia pure il bamboccione («Io piego il lavoro ai desideri della vita», ha detto) ma non spieghi il mondo a chi è meno fortunato di lui.
La sua è la filosofia del non assumersi mai una responsabilità, del non portare mai pesi per nulla, neanche per un figlio. Ed è singolare che Volo non abbia imparato niente da due dei film che ha girato. Casomai di D’Alatri, bellissima lezione su come davvero non ci possa essere né una famiglia, né un qualsiasi amore, senza la fatica di accettarsi e perdonarsi ogni giorno.

E Uno su due, film su un rampante la cui esistenza è sconvolta da un’improvvisa malattia. Eh sì. Perché capita anche questo, nella vita. Una malattia, o un dolore qualsiasi. E allora si scopre che non siamo sempre all’happy hour, e che certi maestrini non hanno nulla da dirci.
Michele Brambilla

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