Si è parlato molto, lo scorso agosto, di nuove tasse sulle banche e di extraprofitti. L’argomento divide anche la maggioranza di governo. Semplificando, chi è più liberista aborre ogni imposta straordinaria sulle imprese private, mentre chi dà più peso al sociale ritiene che chi macina profitti su profitti debba contribuire maggiormente alla spesa pubblica. Entrambe le posizioni sono legittime. Ma di sicuro, per la banche, la situazione è molto particolare, perché lo Stato, quando si è trattato di utilizzare strumenti finanziari straordinari e risorse dei contribuenti per tamponare le falle del sistema (si pensi alle crisi degli anni Dieci di questo secolo) non si è mai tirato indietro. Adesso invece, in questi anni Venti, le banche stanno battendo ogni record di utile. L’escalation è notevole: si è passati dai 25 miliardi di profitti di sistema del 2022, ai 40 del 2023, ai 46 dello scorso anno, per arrivare alla stima attuale che per il 2025 supera i 50 miliardi. Una crescita che, secondo la Fabi, principale sindacato bancario nazionale e attento osservatore delle dinamiche macroeconomiche del sistema, si deve soprattutto allo stop nella correlazione tra il calo dei tassi d’interesse (determinato dai tagli della Bce) e quello dei tassi dei mutui (deciso invece dalle banche). Negli ultimi 12 mesi, a partire dal settembre del 2024 a oggi, la banca centrale guidata da Christine Lagarde ha ridotto il tasso di riferimento di 225 punti, dal 4,25% al 2 per cento. Ma è proprio dal settembre dello scorso anno che le banche hanno smesso di fare lo stesso con i tassi dei mutui. Aprendo una forbice che in un anno è passata da zero fino all’1,6%. In altri termini, se un anno fa tasso Bce e tasso medio dei mutui erano pressoché appaiati, entrambi al 4%, oggi troviamo il tasso Bce al 2% e quello dei mutui al 3,6%. Una situazione che, sempre semplificando, nel breve e medio termine permette alle banche di finanziarsi al 2%, impiegando il denaro al 3,6%: la differenza finisce nell’utile netto. O, se si vuole, negli “extraprofitti”. Mentre se la correlazione fosse andata avanti, il surplus sarebbe rimasto nelle tasche dei mutuatari sotto forma di minori interessi pagati al sistema. Il che è ancora più vero se si guarda alla domanda di mutui che, come ricorda ancora la Fabi, è in crescita: se a maggio erano 10 miliardi in più, a luglio sono diventati 12, con un trend di crescita che dura ormai da 12 mesi.
Ecco perché, in questo quadro, un contributo da chiedere alle banche troverebbe una sua giustificazione sociale. Ci sarebbe però un prezzo da pagare in termini di credibilità del mercato, anche perché le banche sono imprese private che stanno reagendo, nel breve, a una situazione di lungo periodo dove regna invece l’incertezza: basta vedere l’andamento dei tassi d’interesse sulle lunghe scadenze, che restano in forte tensione. Per questo motivo è più che mai urgente agire nella direzione indicata da queste dinamiche: la casa. Il piano per la casa annunciato da Giorgia Meloni al Meeting di Rimini, per agevolare i giovani nell’acquisto, va giustamente in questa direzione, immaginando l’esistenza di mutui agevolati.
Ecco, se eventuali nuovi prelievi sul sistema bancario fossero pensati in questa chiave, a integrazione di politiche pubbliche per la casa, sarebbero più digeribili. E sicuramente farebbero da volano all’economia, facendo recuperare alle stesse banche quello che potrebbe essere considerato, più che una tassa, un investimento.