E’ giusto o non è giusto che le banche contribuiscano alla manovra finanziaria? E’ un po’ questa la domanda del momento, anche perché, nei tre anni del governo Meloni, appena compiuti (22 ottobre scorso) il tema si è rivelato tra i più divisivi all’interno della maggioranza. I fatto sono noti: alle banche sono stati chiesti circa 5 miliardi attraverso tre tipi di interventi: l’aumento dell’Irap; l’affrancamento degli utili accantonati nel 2023 a fronte dell’allora richiesta del governo di pagare una tassa del 40% sulla loro eventuale distribuzione che ora scende al 27,5%; il rinvio di alcuni sgravi fiscali.
Vediamo le ragioni delle parti, partendo però da un presupposto ineludibile: l’Italia deve continuare sul percorso di risanamento dei conti che, per il 2026, si traduce in estrema sintesi nel quasi azzeramento delle spese in deficit. In altri termini, sui 18,7 miliardi che servono per la manovra ne servono quasi 18 di coperture. Di questi il governo ne ha trovati 5-6 dal Pnrr, altri da tagli vari, altri ancora da qualche tassa e accisa. Ma per chiudere il cerchio ne servono - diciamo - altri cinque.
Prenderli alle banche (e alle assicurazioni) non è bello perché si tratta di imprese private. Dunque, da un lato si penalizza un settore a scapito di altri, dall’altro si compie un’operazione non prevista sulla carta, che equivale un po’ a cambiare le regole del gioco a partita iniziata. Cosa che non garba mai a un sistema di mercato quale il nostro. Inoltre, togliere alle banche parte della loro “ricchezza” significa indebolirle patrimonialmente, cosa che, in caso di una futura crisi (analoga a quelle innescate dal 2008 per quasi un decennio), potremmo dover pagare a caro prezzo. Infine tassare i profitti quando sono alti implica una sorta di regolamentazione morale che niente a che fare con l’attività d’impresa. Cosa succede, infatti, quando al posto dei profitti arrivano le perdite?
D’altra parte – e veniamo alle ragioni del governo – il tema del contributo delle banche (e delle assicurazioni, non dimentichiamole) è nato per gli enormi profitti accumulati in questi ultimi anni: secondo i dati della Fabi sono 112 miliardi al tra 2022 e 2024, mentre per quest’anno ci si attende un aggregato ancora superiore ai 40 miliardi. Una reddittività senza precedenti, che però non nasce solo dalla bravura di banchieri e bancari, bensì anche da condizioni esterne particolarmente favorevoli. Tra queste al primo posto c’è la stabilità politica garantita dal governo stesso. Inoltre, a ben guardare, le banche hanno scelto di drenare per se stesse una parte del vantaggio derivante dal taglio dei tassi d’interesse. Lo si vede dai tassi dei mutui che, sempre secondo la Fabi, da un anno a questa parte si sono fermati, mentre quelli ufficiali della Bce hanno continuato a scendere: il gap arriva a 16 punti, pari a tassi annuali del 3,6% contro tassi Bce al 2%. In soldoni è come se le banche si finanziassero al 2% e poi prestassero al 3,6: la differenza gonfia i profitti.
Ognuno è dunque libero di formarsi una sua opinione. La nostra è che i conti pubblici virtuosi convengono a tutto il Paese, dal privato al pubblico, dalla sanità all’istruzione, dal risparmio ai consumi.
Dunque, in attesa di un bilancio pubblico che – smaltite le stagioni dei bonus - torni a camminare solo sulle sue gambe, ogni settore che deve la sua salute a questo circolo virtuoso può e deve contribuire ad alimentarlo. Anche nel suo stesso interesse.