Ci vuole estro per fare la guerra. Perché - è la storia a dimostrarcelo - la forza distruttiva dei conflitti può celare una buona dose di creatività, inventiva, intraprendenza. «Le guerre sono un fenomeno complesso in cui le società e gli individui sono messi alla prova più che nelle situazioni ordinarie e pertanto mettono in campo, secondo capacità e risorse, anche forze creative». Lo sostiene Alessandro Barbero, professore di Storia medievale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale, romanziere (premio «Strega» nel ’96 con il racconto storico Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, Mondadori) e saggista affascinato dall’arte bellica.
Ha appena pubblicato Benedette guerre. Crociate e jihad (edito da Laterza nella collana dei Libri del Festival della Mente, pagg. 95, euro 10), brillante riflessione storica sulle guerre di religione. Durante questo fine settimana sarà al Festival della Mente di Sarzana, annuale appuntamento culturale dedicato alla creatività: oltre a presentare il suo ultimo libro, discetterà di «creatività distruttrice» ovvero di come la guerra, a modo suo, aguzzi l’ingegno. Dalla scoperta degli eserciti mercenari (sul campo è meglio affidarsi a professionisti disillusi e pagati che a inesperti invasati) ai manuali napoleonici sull’educazione dei soldati: Barbero sostiene che la guerra abbia una creatività tutta sua e per dimostrarlo racconterà al pubblico retroscena e aneddoti sulla battaglia di Campaldino del 1289 tra guelfi e ghibellini, sulla battaglia di Lepanto del 1571 tra gli ottomani e la vittoriosa Lega Santa e sulla disfatta di Napoleone a Waterloo nel 1815 (venerdì, sabato e domenica alle 19,30 alla Fortezza Firmafede).
Professor Barbero, mettiamo da parte la storia e parliamo delle guerre di oggi. Anche queste sono creative?
«Se riflettiamo sull’enorme sforzo logistico necessario per mettere in mare una portaerei, è evidente che anche nelle guerre attuali ingegno e creatività sono necessari. Tuttavia, rispetto al passato la questione è diversa: oggi esistono eserciti permanenti, nessun governo li costruisce dal nulla come si faceva nel passato. L’ultimo caso è stato quello della Guerra Civile Americana, dove un Paese giovane si divise e creò ex novo due eserciti che si combatterono l’un l’altro».
Perché parla di creatività della guerra?
«Penso a situazioni in cui il conflitto è tale che bisogna continuamente inventare dal nulla i propri mezzi, come si faceva con le galere spagnole, che d’inverno venivano smontate e ritirate in secca, e in primavera rimesse in mare di nuovo. Da storico, penso poi al modo creativo, dunque innovativo, con cui una società reagisce alla guerra. Nel Medioevo il sistema feudale nacque proprio per mantenere i cavalieri specializzati».
Esiste oggi qualcosa di paragonabile? Il reclutamento di volontari mujaheddin in Afghanistan o Cecenia, ad esempio?
«Il confronto regge, ma ne sappiamo ancora troppo poco per azzardare giudizi storici. Di certo, tra i mujaheddin esiste una maggiore improvvisazione che negli eserciti tradizionali».
Benedette guerre è il titolo del suo ultimo saggio.
«Si è voluto giocare con l’ironia. Ma è un titolo pertinente: crociate e jihad furono effettivamente benedette. Le prime dal Papa, la seconda da una certa lettura del Corano».
Guerre giuste, insomma.
«Di più: sante. Con le crociate la guerra contro gli infedeli non solo è tollerabile per i cristiani, ma diventa giusta e santa tanto da equiparare a un martire chi vi partecipa e uccide il nemico. Lo scarto col passato è considerevole se pensiamo che i primi cristiani furono obiettori di coscienza ante litteram: rifiutandosi di combattere per l’imperatore, rischiavano la condanna a morte. Dopo Costantino e la diffusione del Cristianesimo a Roma, i fedeli cominciarono a prestare il servizio militare: le crociate segnano l’inizio dell’avventura di quei cristiani che hanno accettato l’appello del Papa, sentendone il fascino, e si sono messi in gioco, facendo cose che oggi ci sembrano discutibili e che invece a loro sembravano sacrosante».
Nel linguaggio e nel sentire comune prevale la connotazione negativa delle crociate.
«Sarà qualche anticorpo illuminista che abbiamo ancora in circolo? Battuta a parte, allo storico spetta capire e non giudicare perché nel Medioevo si diffuse questa forma sui generis, anche violentissima, di pellegrinaggio in Terra Santa fatto da gente che ci credeva davvero. Erano uomini pronti a rischiare la vita, a stare lontani da casa per anni, con concrete probabilità di non tornarci, per rivivere la Passione di Cristo, per penitenza, perché pensavano che l’esistenza avesse un senso che andava al di là degli interessi materiali quotidiani».
Le crociate furono guerre creative?
«La guerra non è mai creativa in sé. È un fenomeno complesso, doloroso e devastante. Sovente, va detto, stimola la creatività degli uomini che la fanno».
Per questo la affascina?
«La storia è interessante perché rappresenta un’enorme casistica di comportamenti umani: ci dice molto di noi.
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