Roma - Dopo la Spagna, in trionfo a Vienna, nell'Europeo del giugno scorso, ecco il Barcellona legittimo titolare della Champions League assegnata ieri a Roma. Doppietta magica: non dev'essere un semplice caso. Ma forse di clamoroso c'è quel giovanotto in panchina, 38 anni, Pep Guardiola, preso dalle giovanili e trascinato con coraggio alla prima squadra dal suo presidente: nel giro di pochi mesi mette insieme un trittico unico, Liga, coppa del Re e Champions, mamma mia che sequenza. Signori, ecco a voi il nuovo fenomeno da analizzare e studiare. È un ragazzo dagli slanci generosi (sua la telefonata a Mazzone, antico maestro, per invitarlo allo stadio) che sa far funzionare come una macchina da formula uno questa squadra con pochi muscoli, tanta corsa e il genio distribuito in quantità moderata. Fuori ha i migliori della difesa, Abidal, Marquez e Alves, eppure la sua diga resiste alle prime energiche spallate di Cristiano Ronaldo.
Regge l'urto anche più tardi quando Ferguson, preso da una stravagante mania, schiera l'artiglieria, 4 punte tutte insieme a togliere spazio al portoghese, uscito di scena nella ripresa. Per sir Alex è la prima sconfitta dopo 25 successi di fila in Europa, la prima in una finale Champions, inattesa e perciò ancora più dura da smaltire. La stilettata di Eto'o e la testolina di Messi sono la degna cornice a un quadro d'autore, di una bellezza unica, contagiosa. Come la gioventù coraggiosa dei catalani in festa per tutta la notte. Cantano e ballano, se lo meritano.
Degno dell'acuto di Bocelli, è Cristiano Ronaldo, il primo e il più lesto e impossessarsi della scena, imbottigliando il Barcellona, mettendo soggezione ai rivali costretti al fallo brutale (ammonito Piqué) per frenarne la forza ciclopica. Lo show del portoghese dura meno di dieci minuti: uno, due, tre, quattro assalti a testa bassa, con un misto del suo miglior repertorio, punizione-missile, tiro dalla distanza, sinistro a chiudere dopo un triangolo ubriacante dei suoi. Trema, come scossa alle fondamenta, la difesa catalana ma resiste miracolosamente ed è in grado di dettare una timida reazione dalle conseguenze letali. È una delle leggi spietate del calcio: uno attacca a testa bassa e non passa, l'altro si difende con qualche impaccio e al primo contropiede trova il vantaggio. Merito dell'imboscata di Iniesta, appena uscito dalla trincea, e dell'apertura per Eto'o, una spada infilata nel fianco dello United: il camerunense salta in velocità Vidic, evita Carrick e infila la palla tra le gambe di Van der Sar, come una saponetta traditrice. Ma cosa ci fanno Eto'o a destra e Messi punta centrale? Fanno sul serio, verrebbe da rispondere. Specie quando l'argentino, palla incollata al piede, si muove tra i birilli inglesi, con grande sapienza fino a sfiorare, con una rasoiata, il sigillo del 2 a 0, ma è Iniesta, catalano purosangue, classe '84, centrocampista classico, a giganteggiare.
Il Manchester, padrone del campo e del gioco, finisce presto nella ragnatela del Barça: passaggi corti, stretti, precisi, altro che il palleggio rallentato del Milan. Ferguson disegna un curioso modulo, Giggs mediano e Park all'ala: non ne ricava granché fino all'intervallo così si decide presto a cambiare, con Tevez di sostegno all'attacco dopo l'intervallo e Berbatov poco più in là. Quattro punte, un copione rubato a Mourinho.
Non sembra una genialata, specie se si tiene la contabilità del contropiede di Henry (Van der Sar rimedia coi piedi) e il palo scheggiato da Xavi su punizione che danno l'impronta della seconda frazione tutta punteggiata dall'assedio inglese al fortino spagnolo difeso con puntiglio da una combriccola di gendarmi svegli, molto svegli.
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