Jimmy V, il coach di basket che sconfisse anche la morte

Dopo il trionfo nel 1983, il tecnico di basket italo-americano riuscì a cambiare per sempre l'America anche dopo la sua morte. Il suo storico discorso agli ESPYs diede il via ad una fondazione per la ricerca sul cancro che ha raccolto centinaia di milioni: "Se ridi, pensi e piangi, è stata davvero una bella giornata"

Jimmy V, il coach di basket che sconfisse anche la morte

Poche figure rendono meglio la differenza tra il mondo dello sport americano e quello europeo come la figura dell’allenatore. Se alle nostre latitudini non mancano i “mister” famosi, capaci di uscire dall’ambito sportivo, il “coach” in America assume significati insospettabili. Se i tecnici delle grande franchigie professionistiche sono in grado di staccare cachet da capogiro per parlare a conventions aziendali, le figure più particolari sono gli allenatori delle squadre di college. Dover avere a che fare esclusivamente con ragazzi di nemmeno vent’anni richiede una combinazione di talenti inconsueta. Quando si convince le famiglie, quando si assembla una squadra, il coach deve essere un fine psicologo e un motivatore a prova di bomba.

Il fatto che, di solito, le università si affidino ad un tecnico per molti anni li fa diventare parte integrante dell’identità di queste istituzioni. Immaginare la Crimson Tide di Alabama senza Nick Saban è quasi impossibile, come i Blue Devils di Duke senza Mike Krzyzewski. Eppure, in qualche caso, l’impatto di un tecnico è talmente grande da battere addirittura la morte. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta a Raleigh, North Carolina, per raccontarvi la storia di un colorito allenatore italo-americano che riuscì a cambiare il mondo anche dopo aver lasciato questa valle di lacrime. La cosa più curiosa è che gli bastò un memorabile discorso, non nello spogliatoio ma in televisione. Trent’anni dopo ripercorriamo la storia di James Valvano, l’indimenticabile Jimmy V.

Il coach del "miracolo"

La storia di questo tecnico davvero sui generis era iniziata molto lontano dalle colline della Carolina, nel Queens, il colorito borough di New York a forti tinte italo-americane, il 10 Marzo 1946. Il grande amore del figlio di una normale famiglia di immigrati era sempre stato il basket, prima alla Seaford High di Long Island, poi a Rutgers, dove aveva vinto il premio di atleta dell’anno nel 1967. Visto che non era abbastanza bravo per passare nella NBA, decise di rimanere all’università, entrando nello staff tecnico degli Scarlet Knights. Jimmy V se la cavava bene, tanto da passare prima a Connecticut, poi alla Johns Hopkins e alla Bucknell. A far alzare un sopracciglio ai tradizionalisti, i suoi metodi poco convenzionali: il suo programma nella radio del college aveva come sigla la colonna sonora de “Il Padrino” e nel riscaldamento non disdegnava scendere in campo coi suoi ragazzi con la maglia da gioco, tirando con loro.

James Valvano bordocampo

Il giovane tecnico si guadagnò un contratto di cinque anni all’università di Iona, dove a partire dal 1975, trascinò questa piccola squadra a grandi risultati, inclusa una storica vittoria nel 1980 contro i futuri campioni NCAA di Louisville. Questo fu abbastanza per attirare l’attenzione di North Carolina State, università ansiosa di tornare alla grandezza. Il colloquio con Willis Casey, direttore atletico di NC State, fu memorabile: quando gli chiese perché voleva venire a Raleigh, Jimmy V rispose senza esitare “perché voglio vincere il titolo”. Per convertire in realtà la spacconata del tecnico ci sarebbe voluto un vero e proprio miracolo.

La corsa del Wolfpack nel 1983 è entrata nella storia dello sport americano come un’impresa paragonabile al famoso “miracle on ice” delle Olimpiadi di Lake Placid. Arrivati al torneo con dieci sconfitte in stagione, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla squadra di coach Valvano. Eppure, nonostante fossero arrivati nell’ultimo quarto della finale contro la favoritissima University of Houston di Clyde Drexler ed Hakeem Olajuwon, riuscirono a giocarsi la vittoria sul filo di lana. Contro l’esplosiva confraternita della schiacciata, fu proprio una slam dunk all’ultimo secondo a consegnare la vittoria a North Carolina State.

James Valvano bordocampo 2

Nelle dieci stagioni passate a Raleigh, NC State arrivò otto volte nel torneo finale della NCAA, vincendo due titoli della combattutissima Atlantic Coast Conference. Jimmy V divenne talmente importante da prendersi anche il potente ruolo di athletic director, caso abbastanza raro nel college basketball. Eppure nel Gennaio 1989 il tecnico italo-americano finì nel mirino delle autorità per una serie di irregolarità amministrative nel suo programma. L’università fu quindi esclusa dalle finals del 1990 e messa sotto il microscopio. A far cadere il regno di Jimmy V fu uno scandalo ben peggiore, legato alla pratica illegale di aggiustare i risultati delle partite per favorire certi scommettitori. Il cosiddetto “points shaving” mise coach Valvano sulla graticola, costringendolo a rassegnare le dimissioni il 7 aprile 1990. La sua carriera era finita, ma la sua leggenda era solo iniziata.

Lowe Whittenburg 1983

Il mito del "Cardiac Pack"

Nessuno in America ha però dimenticato la corsa straordinaria di quella Cenerentola del canestro. Se all’epoca gli avevano affibbiato il simpatico soprannome di “Cardiac Pack”, non solo perché correvano come dei disperati ma anche perché mettevano a rischio le coronarie dei propri tifosi, il resto del paese lo conosce meglio come il “Team of Destiny”. La favola del piccolo Davide che mette sotto la prepotenza atletica del Golia del South Texas ha catturato l’immaginazione dell’intera America, che va pazza per storie del genere.

Da allora, i giocatori di quello storico Wolfpack non fanno altro che raccontare dettagli su quella meravigliosa stagione. Bailey, il tiratore migliore, ricorda come buona parte del successo fosse dovuto alla preparazione meticolosa del tecnico del Queens. “Coach V ci aveva preparato bene. Eravamo una buona squadra ma parecchie cose girarono bene. Chi parla di una squadra destinata al successo dimentica che se la fortuna ti deve dare una mano, sta a te scendere in campo e fare quello che devi fare”. A far funzionare un gruppo di buoni giocatori era sicuramente il gioviale, colorito tecnico italo-americano: “Coach V era unico. Quando bisognava scendere in campo era estremamente serio e ci spiegava cosa fare in campo. Fu lui a coniare il detto ‘survive and advance’, ovvero reggere quanto basta per trovarsi sempre in condizione da poter vincere una partita in ogni caso”.

Thurl Bailey 1983

Tutti ricordano quella Final Four ad Albuquerque contro Georgia, Louisville ed Houston, tre delle squadre più spettacolari ed efficaci dei primi anni ‘80. Bailey ricorda come per rispondere al famoso soprannome di Houston, anche loro coniarono un nomignolo per l’occasione, “Phi ‘Pack Attacka”. Con tutta la benevolenza del mondo, decisamente meno fortunato di quello di Drexler e compagni. Alla fine, però, le cose si misero bene per gli alfieri del North Carolina. Il tecnico di Houston Guy Lewis rallentò il ritmo, sperando di tener basso il punteggio ma i suoi sbagliarono parecchi tiri liberi. Con il punteggio inchiodato sul 52 pari, Whittenburg sparò un tiro della disperazione dalla lunghissima distanza che non prese nemmeno il ferro. Per fortuna di Jimmy V, però, Charles lo prese in volo, ribadendolo a canestro con una schiacciata.

Mannion, che quel giorno ad Albuquerque c’era, ricorda come “quando riguardi quella giocata ti viene da pensare che fosse davvero tutto scritto. Se esamini il percorso di North Carolina State, dalla prima gara alla finale, non puoi che credere che quel titolo era scritto nelle stelle. Più di una volta sembravano spacciati ma in qualche modo riuscivano comunque a vincere. Quella squadra era davvero destinata a fare grandi cose”. Eppure, nessuno dei giocatori del Wolfpack si sarebbe mai immaginato che il loro amato allenatore avrebbe finito per cambiare il mondo non sul parquet ma di fronte ad una telecamera.

Sidney Lowe 1983

Il discorso della vita

Una volta lasciata la panchina, Jim Valvano si era reinventato come telecronista, collaborando con successo alle telecronache della ESPN, la principale emittente sportiva via cavo americana. A quasi dieci anni dal trionfo nella Final Four, però, la vita scaricò una tonnellata di mattoni sulla testa del coriaceo figlio del Queens. Un verdetto di quelli che non ammette repliche, un tumore molto aggressivo contro il quale c’era ben poco da fare. Nonostante non avesse ancora 50 anni, Jimmy V non volle mollare nemmeno per un secondo, continuando a fare le sue telecronache nonostante le sue condizioni deteriorassero giorno dopo giorno.

Quando ormai era chiaro che il suo percorso terreno era quasi arrivato alla fine, la sua emittente volle premiarlo per il suo impegno nel sociale, assegnandogli il prestigioso Arthur Ashe Courage and Humanitarian Award. La premiazione, ironicamente, sarebbe avvenuta proprio nella sua New York, nel corso degli ESPYs tenuti al Madison Square Garden. Coach V non era in grado nemmeno di camminare bene ed ebbe bisogno dell’aiuto di un altro grande del basket, l’allenatore di Duke Mike Krzyzewski, per arrivare sul palco. Quando, però, la lucetta rossa della telecamera si accese, le parole del figlio del Queens cambiarono la storia degli Stati Uniti.

James Valvano colori

Sono passati 30 anni da quel 4 Marzo 1993 ma nessuno in America ha mai dimenticato quei dieci minuti che venivano dal cuore. Jimmy V si era fatto voler bene per la sua personalità, le sue battute sagaci, il suo amore per la vita unito ad un carisma e ad un entusiasmo contagioso. Nonostante fosse davvero ad un passo dalla morte, il messaggio che lanciò al paese è ancora vivo e vegeto. Il video lo trovate qui sotto ma vale la pena ricordare alcuni dei passaggi più memorabili. “Per me ci sono tre cose che ognuno dovrebbe fare ogni giorno. Prima di tutto ridere, poi pensare, passare del tempo a riflettere sulle cose. Ultima cosa, emozionarti per qualcosa fino alle lacrime. Se ridi, pensi e piangi, è stata davvero una bella giornata”. La frase più famosa è diventata il suo motto: “Non mollare, non pensare nemmeno di mollare. Questo è quel che farò per ogni minuto che mi rimane”.

Quando qualcuno provò a ricordargli che il tempo a sua disposizione era scaduto, lo prese bonariamente a male parole, chiudendo con una frase che voleva riassumere un’esistenza intera: “Il cancro può portarmi via le mie capacità fisiche ma non può toccare la mia mente, non può toccare il mio cuore e non può toccare la mia anima. Queste tre cose continueranno per sempre, nonostante tutto. Grazie, Dio vi benedica”. James Valvano sarebbe morto qualche giorno dopo: aveva solo 47 anni. Non lo sapeva ancora, ma l’impatto che avrebbe avuto sul mondo, l’ispirazione che avrebbe dato a chiunque si trovava di fronte alla malattia o ai tanti ostacoli della vita era appena iniziata. Jimmy V si sarebbe dimostrato capace di battere anche Sorella Morte.

Reynolds Coliseum Hall of Fame

La vera eredità di coach Valvano

Quando Valvano si spense nell’ospedale dell’Università di Duke, le parole del collega Mike Krzyzewski fecero una grande impressione: “Jim era un sognatore, un grande motivatore e uno che non mollava mai. È rimasto fedele a sé stesso fino all’ultimo respiro. Quello che ha fatto nell’ultimo anno lottando contro il cancro è stato eccezionale. Sono sicuro che i suoi sforzi ci porteranno un giorno a sconfiggere questa maledetta malattia”. In realtà Coach K non si stava solo riferendo al suo esempio umano ma anche alle varie attività che aveva messo in moto, che avrebbero portato frutti inaspettati nel giro di pochi anni. Prima che l’adenocarcinoma alla spina dorsale se lo portasse via, Valvano aveva iniziato ad usare il microfono delle sue telecronache per iniziare una campagna di sensibilizzazione sul cancro e raccogliere fondi. Sul palco degli ESPYs, nel corso del memorabile discorso, aveva infatti annunciato la nascita della Jimmy V Foundation for Cancer Research, usando ogni minuto a sua disposizione per diffonderne il messaggio.

Se vedo la mia situazione attuale so quello che voglio fare con il tempo che mi rimane: passarlo ad aiutare gli altri e fornirgli un po’ di speranza. Voglio che la ricerca sul cancro torni ad essere un tema di attualità. Abbiamo bisogno del vostro aiuto, di fondi per alimentare la ricerca. Non servirà a salvarmi la vita, ma potrebbe salvare quella dei miei figli o quella di qualcuno a voi caro”. Trent'anni dopo la sua fondazione non solo è ancora attiva ma sta segnando record incredibili nel campo della lotta ai tumori. Si stima infatti che siano stati raccolti oltre 250 milioni di dollari per finanziare progetti di ricerca e che grazie all’attività della fondazione più di un miliardo di dollari sia stato mobilitato per migliorare la vita di tutti coloro che combattono contro il cancro. Una fondazione molto pratica, snella, che destina il 100% delle donazioni a progetti di ricerca in tutti gli Stati Uniti, mantenendo vivo il messaggio di Jimmy V.

La fondazione è riuscita a coinvolgere anche molte franchigie degli sport professionistici, specialmente nella NFL, dai Miami Dolphins ai campioni in carica dei Kansas City Chiefs, che hanno finanziato generosamente progetti di ricerca in centri specializzati delle rispettive comunità. In un’intervista rilasciata qualche tempo fa, il Ceo della fondazione Susan Braun ha parlato di come l’eredità di James Valvano sia ancora fondamentale. “Il nostro principio è lo stesso che espresse nel suo famoso discorso: la ricerca non salverà la mia vita, ma quella dei miei figli. Cerchiamo ancora oggi di usare ogni metodo per portare attenzione al tema della ricerca, raccogliendo l’aiuto di tanti sportivi per raccogliere fondi. In fondo lo sport sa bene cosa voglia dire lottare, superare gli ostacoli più duri e rialzarsi quando finisci al tappeto. Non bisogna distogliere lo sguardo dall’obiettivo finale, andare avanti nonostante tutto, poche yards alla volta, fino a quando non arrivi alla meta”.

James Valvano ritratto

Sono sicuro che, dovunque sia ora, Jimmy V sarà contento di vedere quanto bene sia riuscito a fare nonostante sia passato ad un piano d’esistenza diverso. La sua fondazione ha finanziato studi su interventi di precisione e cure specifiche che hanno aiutato enormemente la ricerca sui tumori. Non si saprà mai quante persone siano state salvate o, magari, abbiano avuto qualche anno in più da passare coi propri cari grazie all’impegno e alla dedizione di chi è stato ispirato dalla vita e dalle parole di questo figlio del Queens molto speciale.

La speranza, ovviamente, è che sempre più atleti e sportivi prendano esempio da lui, lasciando da parte le ideologie e la politica per usare la loro

popolarità per fini ben più importanti. Dio solo sa se non ne avremmo tutti bisogno di questi tempi. Comunque la pensiate a riguardo, una cosa è certa: storie del genere possono succedere solo in America.

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