nostro inviato a Torino
Che altro dobbiamo aspettare, per capire chi sia davvero il migliore? Che cosa deve ancora dimostrare, Ivan Basso, perché il suo Paese si convinca di avere un campione nuovo e fiammante, rappresentazione ideale di classe ed eleganza, secondo la migliore tradizione del celebrato made in Italy?
Si muove con cadenze felpate, come atleta e come uomo, lontano dagli eccessi e dal kitsch, sublimando normalità e semplicità, contro l'andazzo dilagante della modernità tatuata. È un ragazzo perbene senza essere perbenista, si smazza amabilmente i fatti suoi senza sbatterli immancabilmente davanti a una telecamera, si fa quotidianamente un paiolo immane, da mattina a sera, celebrando religiosamente la messa laica del suo lavoro: in altre parole, è come gli italiani di una volta, quelli prima degli yuppies e dell'happy-hour, più bravi con le opere che con le chiacchiere. Meglio: è l'italiano che tutti quanti adesso invocano, da Montezemolo a Siniscalco, governo confindustria sindacati, per uscire dall'atmosfera gaudente e decadente di questa nazione smidollata.
Nel suo piccolo, Ivan Basso sta raccontando a tutti quanti noi una storia molto particolare e decisamente controcorrente. Con la forza sommessa di un esempio elementare, è la storia di un ragazzo che per anni prepara la grande affermazione personale, che non esita a educarsi e a misurarsi nelle più evolute università straniere (leggi: Tour), che infine torna quando si sente pronto per fornire un onorato servizio al suo Paese. Ma attenzione, la storia non è così scontata. È una storia di vita, cioè inevitabilmente aperta a colpi d'ala e a colpi di tacco, a grandi gioie e a grandi delusioni. Quando il suo sogno tricolore (su fondo rosa) comincia a realizzarsi, con i capolavori di Firenze e di Zoldo Alto, ecco la polpetta avvelenata del destino: una gastroenterite feroce, una complicazione infame che si potrebbe nascondere lungo tranquille tappe di pianura, ma che lui deve scontare platealmente sulla montagna più alta del mito sportivo, il Passo dello Stelvio.
Un altro italiano, un italiano d'oggi, a questo punto chiuderebbe la storia piagnucolando sul mal di pancia e sulla perfidia della sorte. Ma Basso è l'italiano sopravvissuto di un altro tempo e di un'altra mentalità: nei giorni neri della sconfitta, quando tutto è rovina e macerie, trova la forza e il coraggio per scoprirsi anche migliore. Senza piagnistei, senza strilli e senza schiamazzi, cerca una buona ragione per ricominciare da capo e immediatamente la trova.
Ed eccolo qui, pochi giorni dopo, l'italiano che tutti quanti dovremmo essere nelle nostre discipline personali, siano esse di stampo atletico o intellettuale. Prima risorge vincendo sulle montagne di Limone, staccando tutti, però consapevole che qualcuno possa eccepire sostenendo che gli avversari, in fondo, non abbiano più interesse ad inseguirlo. Ne è talmente consapevole, che la mattina dopo va deciso alla dimostrazione finale, senza ma-se-però: la guerra della cronometro, la prova della solitudine, ciascuno contro il resto del mondo, senza tattiche e senza astuzie. Alle volte, le combinazioni: è ancora primo. Due vittorie in due giorni. Due rivincite contro il virus e contro il destino, a dimostrazione che comunque c'è sempre una via d'uscita, anche sotto le macerie della sconfitta.
Finisce così? Non scherziamo. Anziché rammollirsi nell'appagamento, l'italiano d'altri tempi già prepara un nuovo domani: «Questa cronometro dà un senso al mio Giro. Ma mi è servita soprattutto come test per il Tour. Battere Armstrong? È molto difficile. Io posso solo dire che mi sento più forte, più determinato, più sicuro di un anno fa. Qui ho perso male, ma ho capito di poter vincere. Un giorno».
A risentirci quanto prima dal terribile sterrato del Colle delle Finestre, quest'oggi spalancate sui nostri due Giri separati e distinti. Nel primo, Savoldelli proverà a cucirsi addosso la maglia rosa. Nel secondo, Basso proverà a continuare la sua storia: la strana storia di un italiano che piace.
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