Dal «bavaglino» al pigiama: a quando una vera maglia?

Dal «pullover» mondiale al collo a «V»: l’Italia cambia look e riesce a peggiorarlo

Due anni fa la maglia che pareva un pullover l’avevamo riposta nell’armadio dopo un paio di amichevoli perché vincere il Mondiale conciati così non ci pareva bello. E adesso - con indosso il nuovo pigiamino - possiamo dormire sonni tranquilli e sognare di vincere gli Europei. Con la maglietta sfoggiata mercoledì a Zurigo nell’amichevole contro il Portogallo, si scrive il nuovo capitolo della saga infinita delle uniformi azzurre, che da qualche anno somiglia sempre più a un catalogo Postalmarket. Dettagli trendy, una linea fashion. La tradizione è out, il vintage non tira più. E alla fine della sfilata la maglia della Nazionale fa discutere più delle signore impellicciate alla prima della Scala.
Già, perché la nuova mise con tanto di bordini chiari non convince. Archiviato appunto il «bavaglino» - l’inserto triangolare blu scuro del 2006 che faceva tanto maglioncino (o tovagliolo al ristorante) -, è la volta dello scollo a V. Che a occhio e croce non sta per vittoria, dato che l’ultimo precedente è l’anno di (dis)grazia 1966, quando Pak Doo-Ik ci fece fuori dai mondiali inglesi.
Anche perché - se il pubblico è il dodicesimo uomo in campo - la superstizione è il tredicesimo. E allora c’è chi idolatra la casacca con colletto bordato di Spagna ’82 e chi ha maledetto le divise dal ’94 al ’98: un po’ per il fatto che Sacchi e Maldini raccolsero solo delusioni, un po’ perché quelle maglie non spiccavano per buon gusto, con il «codone» e la scritta «Italia» sulle regali terga dei giocatori. Altrettanto sfortunata fu poi la sexy maglietta di Euro 2000: si chiamava «Kombat», era più attillata dei tubini delle cubiste e alla prima trattenuta trasformava i calciatori in supereroi estensibili con maniche lunghe un metro.
Eppure di maglie divine ne abbiamo avute. D’accordo, nel 1910 la divisa del debutto fu una camicia dai polsini inamidati e con i mutandoni random: cinque neri e sei bianchi. Però di strada il «made in Italy» da allora ne ha fatta e ci sarà un motivo per cui il «Times» ci descrive come «la nazionale più elegante d’Europa». Merito soprattutto della classica maglia del 1970. Semplice e perfetta, tanto da meritare il terzo posto tra le casacche più belle di sempre, dietro al Brasile di Rivelino e Pelè e al Real Madrid di Puskas e Di Stefano. Altro che le bande blu scure del Mondiale, buone solo per dare la sensazione del sudore perenne. Altro che quei pacchianissimi numeri dorati che sembravano usciti dalla collezione primavera-estate di Fabrizio Corona.
Insomma, non siamo ai livelli dell’inguardabile divisa beige del Barcellona di fine anni Novanta o della seconda maglia rossa della Germania, ma di sperimentazioni stilistiche i tifosi sembrano un po’ stufi. Senza contare che si guarda con nostalgia al Ventesimo secolo, quando la purezza del «bleu marinaro» (come era definito il colore sabaudo) non era increspata dai simboli degli sponsor tecnici.

Dal Duemila, invece, sui petti azzurri hanno cominciato ad affollarsi prima i gemelli e poi i felini. Fino all’eccesso dell’altra sera, quando sulle divise italiane c’erano più coguari che allo zoo.
Poveri noi, convinti che i Pumas fossero i rugbisti dell’Argentina...

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