Bello ed esagerato come un ottovolante

Apre il Museo nazionale delle arti del XXI secolo con la collezione permanente ed esposizioni temporanee Lo stupefacente edificio ruba la scena a installazioni e quadri. E forse si doveva guardare di più al futuro

Bello ed esagerato come un ottovolante

Roma - Benvenuto Maxxi. Dopo dodici anni di cantiere e tanti ministri di diverso colore, l’Italia ha il suo primo museo statale d’arte contemporanea. Ovvio che la titanica impresa abbia trovato casa a Roma, tornata ai fasti degli anni ’60 e ’80 e al ruolo di «capitale dell’arte» che nello scorso decennio aveva ceduto a Torino. Il Maxxi dunque funziona da volano lungo il Tevere, non solo all’imminente apertura del Macro di cui in questi giorni si possono già vedere alcune nuove sale progettate dall’architetta francese Odile Decq, ma anche al proliferare di fondazioni private, al ritorno in massa delle gallerie supportate da una fiera più che discreta. Unico anello debole della catena sembrano gli artisti: da qui ne stanno uscendo pochi di valore nelle ultime generazioni.

La concezione modernista del museo come scrigno per preservare ed esporre le opere d’arte è qui del tutto superata. Protagonista assoluto della vicenda è il contenitore che l’archistar Zaha Hadid ha infatti consegnato vuoto alcuni mesi fa, in modo che si potesse ammirare lo splendido gioco di pieni e vuoti, l’incastro di un piano in un altro, la pianta oblunga come un braccio a tre artigli. Le opere, in tale contesto, appaiono marginali, soprattutto quelle che costituiscono il parziale nucleo della collezione. Hanno dovuto fare miracoli gli allestitori arrampicandosi fino al sottotetto per collocare un gigantesco arazzo di William Kentridge e osare ben oltre la logica nel piazzare altissimo il ciclo fotografico Le ore di Luigi Ontani. La scala è quella del gigantismo, cui danno l’esempio i quattordici metri di acciaio della scultura di Anish Kapoor posta nell’atrio o lo scheletro di Gino De Dominicis appoggiato a terra nell’ampio cortile eppure penalizzato dall’incombenza architettonica. Non vi è criterio storicista né tantomeno evolutivo nella selezione attuale, ma solo il curriculum di statura internazionale (Kiefer, Richter, Gilbert & George, Warhol ecc…) e il gusto dei curatori (Pippo Ciorra, Alessandro D’Onofrio, Bartolomeo Pietromarchi e Gabi Scardi), discutibile quando puntano sull’effetto lunapark del design smisurato, rischiando talora con lavori epigonali (abbastanza spiacevole abbiano scelto un’installazione di Mario Airò scopiazzata senza mezzi termini dalle Squadre plastiche di Alfredo Pirri che, romano d’adozione, avrebbe meritato lui di essere rappresentato).

Nel segno della monumentale Zaha, il primo round del Maxxi spinge molto verso l’architettura, presentando la filologica retrospettiva dedicata a Luigi Moretti, figura chiave del Razionalismo novecentesco, peraltro allestita in maniera tradizionale e canonica. Il pensiero sul presente è dunque affidato alla memoria del passato, imprescindibile in un Paese come l’Italia dove la storia ha un ruolo troppo rilevante anche quando si parla di contemporaneo. Il XX secolo è ancora protagonista negli spazi di un museo dedicato al terzo millennio e al futuro, poiché sono molte le zone da esplorare e da chiarire, tentando di mettere ordine nella storia e, auspicabilmente (come ha sottolineato il ministro Bondi in conferenza, nonostante i toni dissenzienti di parte della platea) che tutte le tendenze e tutti i linguaggi vengano rappresentati, non solo quelli che hanno vinto la battaglia del consenso e si sono imposti nel sistema. Beh, la nomina a chief curator dell'argentino Carlos Basualdo e l’annunciata (ennesima) mostra di Michelangelo Pistoletto nel 2011, quando molti musei d’Italia andranno a celebrare l’Arte Povera, non lascia troppo ben sperare…

Più corretto il progetto di piena rivalutazione di Gino De Dominicis, enigmatico e misterioso artista legato a doppio filo con Roma, per una mostra curata da Achille Bonito Oliva. Difficile avere un parere equilibrato ed equidistante su un personaggio tanto geniale quanto cialtronesco, che si autodefiniva pittore e poi si intratteneva su performance minime quali «il tentativo di formare quadrati nell’acqua lanciando sassi» o esercizi di levitazione. Non amava parlare e rifiutava la pubblicazione delle sue opere sui cataloghi; era contro il vampirismo delle immagini perché la fotografia sottraeva anima all’evento; oggi finisce per essere ricordato soprattutto per aver esposto un down alla Biennale di Venezia. C’è chi afferma non sia scomparso (il titolo della mostra, infatti, è «L’immortale») ma transitato in un’altra sfera, lui che negli ultimi tempi era fissato con simbologie egizie e sumere in un concetto di pittura aristocratica. Un atteggiamento, oltre che uno stile, saccheggiato da Cattelan (si vedano gli scheletrini) e da mediocri imitatori incensati dalla critica quali Roccasalva.

La mostra più interessante, e l’unica pienamente calata nel XXI secolo, è quella del turco Kutlug Ataman, curata da Cristiana Perrella. Classe 1961, videomaker e fotografo solo in apparenza complicato, Ataman esprime temi impregnati di umanesimo, relazionando la sfera privata con la storia collettiva del suo Paese. Si apprezzano le due installazioni Column, ispirata alla Colonna Traiana e incentrata su volti di persone che nel loro sguardo assente riescono a trasmettere passioni intense, e Dome, un’intrigante sospensione di uomini volanti, angeli del nostro tempo in abiti ordinari che pure colleghiamo ai dipinti delle volte nelle chiese.

Il Maxxi si aprirà da domenica al giudizio del pubblico.

Il rischio di mettersi in fila a cogliere la meraviglia dell’edificio, come accade per il Guggenheim di Bilbao o il Beaubourg a Parigi, sembra l’inevitabile segno dei tempi. In questo l’ideologia del nuovo museo romano è adatta al secolo XXI: dell’opera feticcio, dell’opera simulacro, effigi della modernità, non restano che flebili tracce.

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