La scorsa settimana è stata appannaggio degli antiberlusconiani. Dopo mesi d’invisibilità, sono tornati alla luce salendo sui tetti. Anzi, sul tetto simbolo della resistenza al tiranno: quello della Facoltà romana di Architettura. Qui, si sono arrampicati a turno i Grandi dell’opposizione raggiungendo docenti e studenti eroicamente contrari alla riforma dell’Università.
Il primo ad approdare sul terrazzo è stato il capo del Pd, Pier Luigi Bersani. Aveva convocato le telecamere e si era infilato il sigaro in bocca. È sbucato tra i protestatari e ha fatto un discorso elettorale: «Se tocca a me (cioè se sarò io a guidare l’opposizione in caso di voto anticipato, ndr), questa legge la cambio». Neanche tirato il fiato che già un’associazione di consumatori gli rimproverava il pessimo esempio dato ai giovani col Toscano tra i denti. Bersani, che adora essere politicamente corretto, ci è rimasto male. Ha però pensato che ne era valsa la pena. La riteneva la migliore idea da quando è segretario pd e che il gesto dannunziano lo avrebbe avvantaggiato sui tanti che gli contendono la leadership.
La speranza è durata 24 ore. Già all’alba del giorno dopo, i suoi concorrenti hanno preso la via del tetto. Ha cominciato il principale, Nichi Vendola. Lo ha seguito Totò Di Pietro. Si è accodato il quartetto Flavia Perina, Chiara Moroni, Della Vedova, Granata, in rappresentanza del presidente della Camera, Gianfry Fini, che non si è esposto in proprio per non compromettere, in caso di incidente, una gita a Montecarlo.
Per regolare l’andirivieni, il cantautore Antonello Venditti si è prestato a fare da vigile urbano, smistando gli arrivi. Venditti era sul lastrico solare in rappresentanza del suo fraterno amico, Walter Veltroni, altro avversario interno di Bersani. Prima di dare la parola agli altri, ha giustificato la sua ingiustificabile presenza dicendo: «Mi sento parte in causa. La lotta per la cultura è una lotta globale». Ossia di tutti, pure mia, anche se non c’entro un tubo.
Fin dal primo fiato, il Vendola sul tetto ha surclassato Bersani per efficacia e ispirazione: «Qui c’è aria pulita, giù c’è troppo inquinamento». Stando agli allibratori, solo con questo ha acquistato dieci punti di vantaggio per le primarie nel Pd. Poi ha aggiunto: «La riforma Gelmini è reazionaria e colpisce al cuore il sistema pubblico». Un autentico colpo di genio che, a detta di molti, gliela dà già vinta su Bersani. I quadrumviri finiani si sono limitati a rivendicare, senza fantasia, il merito di affossare in Parlamento la riforma gelminiana. Gli asserragliati li hanno applauditi. Si vedrà se il consenso sul terrazzo si rispecchierà nell’urna.
Di Pietro, a causa della corporatura sempre più massiccia, è quello che ha fatto più fatica a raggiungere le tegole. Ha lungamente ansimato al microfono prima di riordinare le idee. Quando ce l’ha fatta, ha detto che la riforma universitaria «è la buccia di banana con cui il governo arriva al capolinea». Si tratterebbe della prima buccia intelligente che anziché provocare un rovinoso scivolone accompagnerebbe con grazia il Cav alla porta. Molti hanno attribuito l’imperfezione della metafora all’italiano di Totò. Tutti si sono però chiesti in quali mani cadrebbe l’Italia se l’alloglotta fosse premiato dal voto.
Questo pittoresco casino sul tetto, se è servito a darci uno spaccato di quanti si candidano a sostituire il Cav, ha però frustrato Bersani. Pensava di avere ideato il colpo vincente ma i rivali, scimmiottandolo, hanno sovraffollato la scena. I problemi di casa sua restano intatti. C’è Vendola che lo insidia e, se lo affronterà sul terreno delle grandi frasi senza senso, avrà sicuramente la meglio. È riuscito a farsi rieleggere dai pugliesi che sanno sulla loro pelle quanto ha sgovernato la Regione, figurarsi se non riuscirà a convincere chi non lo conosce e si affida alla speranza. C'è la coppia Veltroni-D’Alema che ha ritrovato un’unità di comodo e gli fa la posta. Walter ha già fatto capire con Venditti, il suo inviato sul tetto, che combatterà la battaglia con l’arte dei grandi scenari, gli «have a dream» e - autorizzato dal redivivo D’Alema che ne ha il brevetto - le suggestioni del «Paese normale». Tutte cose spiazzanti per un praticone come Bersani il cui motto è «pane al pane, vino al vino». Nato a Bettola, nomen omen, in quel di Piacenza, infanzia alla pompa di benzina di papà, adolescenza in parrocchia, formazione nel Pci.
Insomma, un tipo di lana grossa che non può rivaleggiare col poetico sfinimento dell’autore della «Scoperta dell’alba», «Il disco del mondo», «Quando cade l’acrobata, entrano i clowns». Resta la speranza in D’Alema che le sbaglia tutte e, se lo avversa, lo favorisce. Ma superato lo scoglio Veltroni, ecco affacciarsi il sindaco poppante di Firenze, Renzi, che lo vuole rottamare. Se non è Renzi è Zingaretti, il presidente della Provincia di Roma. E se non sono loro, fa capolino quel fighetto di Montezemolo. Non va bene lui? Arriva Alessandro Profumo, il disoccupato di Unicredit. Ognuno lì, pronto a fargli le scarpe. Senza contare Prodi, che finge di snobbarli tutti, ma gufa come un dannato e cova la rivincita.
Non sta meglio Di Pietro, l’aborigeno che punta in alto. Allevato alla sua scuola, l’ex pm Luigi De Magistris vuole scalzarlo. Sono della stessa pasta: predicano bene e razzolano male. Totò, che si scaglia contro il Cav perché chiede lo scudo, si fa poi dare lui l’immunità a Strasburgo per salvarsi dalla querela dell’ex giudice Verde. Luigi che promette, una volta lasciata la magistratura, di dimettersi. Invece ottiene l’aspettativa - cioè il posto sicuro - e la molla solo quando vince la lotteria del seggio Ue. Perfetti campioni dell’ipocrisia che regna nell’Idv. Col terzo incomodo e pari loro, tale Francesco Barbato, che vorrebbe sostituirsi a entrambi. E per farlo si agita. Giorni fa ha portato un sacco di immondizia alla Camera e si è fatto cacciare. Di tanto in tanto, fa a pugni con qualcuno e dall’Aula finisce in ospedale. Solo per dire ai compagni dell’Idv: sono meglio di Di Pietro, più energumeno di lui, date lo scettro a me.
Non sono i soli da cui Totò si deve guardare. Adesso, è in ambascia per Montezemolo che se entra in politica, lo fa nero. Idem, per Fini che becchetta nella stessa aia della legalità fasulla. Così, preme il pedale delle elezioni per non dargli tempo di organizzarsi. Nelle more, li scredita con grazioso trogloditismo molisano.
Monty? «Salta a cavallo quando il cavallo è già sellato, va col vincitore». Gianfry? «È come l’assassino che ha ucciso quindici persone e decide di non ammazzare la sedicesima». Per lo meno, rispetto a Bersani è più spiritoso.Però, Signore, liberaci da entrambi.
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