Bersani sboccato? Ma non è questa la sua vera colpa

Caro Paolo, sconfitto nettamente dal repubblicano Dwight Eisenhower nel 1952, Adlai Stevenson corse nuovamente per la Casa Bianca quattro anni dopo. Esponente tra i più colti del Partito democratico, fra l’altro, era stato accusato da alcuni autorevoli osservatori che avevano esaminato l’andamento della sua prima campagna di esprimersi in modo elitario e di non essere in sintonia con l’elettorato. Fu così che nel 1956 decise di essere maggiormente «popolare» e di parlare in pubblico usando un gergo e dei vocaboli che, per natura ed educazione, in privato mai avrebbe utilizzato. Sappia Pierluigi Bersani - oggi apparentemente avviato sulla stessa strada e addirittura approdato all’insulto avendo dato nientemeno che della «rompicoglioni» al ministro Gelmini, una Signora! - che la cosa non funzionò. Stevenson perse nuovamente e molto più sonoramente sia in termini di voti popolari che in termini di delegati, finendo altresì in qualche modo ai margini della politica nei seguenti anni.
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Capirai, caro Mauro, se a Pierluigi Bersani serve anche la spintarella del linguaggio sboccato per andare incontro a una immancabile disfatta politica. Quella è già scritta nelle stelle e nelle Mariastelle e pregustata dagli avvoltoi «sinceramente democratici» - fai conto un Veltroni, un Franceschini e un D’Alema - che già gli fanno il rondò sopra la testa. E poi, sai cosa ti dico? Non sono mica sicuro che Bersani, sua sponte o perché consigliato dagli esperti nella comunicazione&immagine, abbia deciso di andarci giù pesante per compiacere l’elettorato giovane e scapigliato che si riconosce in Beppe Grillo, non a caso l’inventore del «Vaffaday». Cioè se la parolaccia rivolta alla Gelmini faccia parte di una strategia per conquistare nuovo e più fresco consenso alla sua leadership (chiamiamola così). Secondo me la parolaccia gli è uscita dal cuore. Mi spiego: per stare alle ultime carinerie sinceramente democratiche, il «vai a farti fottere» lanciato da D’Alema al nostro Sandro Sallusti gronda rabbia, disprezzo, arroganza e sostanziale minchioneria intellettuale. Il «farabutto» rivolto da Carlina Fracci a Gianni Alemanno è invece strepito gallinaceo, isterismo da bas bleu, se non proprio, come già detto, da lavandaia. L’una e l’altra villanata pronunciate a freddo, con il chiaro intento di offendere: uscite dal cervello e forse dal fegato, non dal cuore. Mi segui, caro Mauro? Bene, ora io non intendo né giustificare Bersani né minimizzare la sua malcreanza ancor più esecrabile perché rivolta a una signora. Però non riesco a cogliere, in quell’espressione - vabbé, scriviamola: «rompicoglioni» - alcunché di ostile, di sferzante e nemmeno di volontariamente insultante. Quella parola non va pronunciata, è evidente. Ma, nel caso, dobbiamo ammettere che ne traspare un sottofondo bonario, di buona disposizione naturale nei confronti della persona cui ci si riferisce o rivolge. Dare a qualcuno del rompi eccetera non è mai o lo è rarissimamente una insolenza, quanto piuttosto una sbuffata, un «uffa!» meglio articolato.
Salvato Bersani - Mariastella Gelmini mi perdoni - salviamo Adlai Stevenson. Non devo ricordarlo certo a te, americanologo patentato, ma Stevenson riscatta una carriera politica da gran trombato con quel «Don’t wait for the translation!» rivolto a Valerian Zonin il 25 ottobre del 1962. In una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Stevenson, rappresentante Usa, chiese a Zonin, rappresentante sovietico, se l’Urss stesse installando i missili a Cuba e perché non tergiversasse gli urlò: «Non aspetti la traduzione!». Così incalzato Zonin farfugliò un «no» e a quel punto Stevenson gli agitò sotto il naso le fotografie aeree che testimoniavano, invece, l’installazione dei missili nucleari.

Grande.
Paolo Granzotto

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