Politica

Il «Berti-bossi» seppellisce il comunismo

RomaQuindici tesi per rifondare la sinistra, scritte in una lingua di mezzo, a metà fra il «bertinottese» stretto e il «neopadano». C’è qualcosa di curioso nel percorso di «reinserimento» di Fausto Bertinotti nella società, dopo la traumatica (per lui) esperienza alla presidenza della Camera. Certo, non è facile per nessuno: per provarlo basta ricordare la parabola dolorosa di Irene Pivetti, che transitò in meno di un mese dai foularini color pastello ultra-istituzionali, alla passerella in camicia verde ultraleghista, alla fondazione di un partito di cui non si ricorda più nessuno (l’Orso!), all’ipotesi centrista della lista Dini, per approdare a una nuova vita televisiva con rubrica delle lettere del cuore su La7, fino alla conduzione di prime serate Mediaset, e servizi fotografici vestita in lattice nero come Catwoman, o accompagnata dai pettorali scolpiti di Costantino Vitagliano. Si dirà: a Bertinotti è andata meglio. Una trombatura sontuosa come candidato premier della lista Arcobaleno e il faticoso tentativo di ritagliarsi il ruolo di «grande saggio» a sinistra.
Percorso non impossibile: poche interviste mirate, la direzione di una pensosa rivista (Alternative), qualche centellinata riflessione da leader super partes. Senonché il digiuno mediatico è difficile per tutti. Dopo uno struggente addio ai monti, o meglio a Porta a Porta («È la mia ultima puntata, mi ritiro dalla politica»), l’astinenza dal palcoscenico è faticosa. Così Bertinotti non resiste agli inviti del suo amico Massimo Fagioli, e le sue folle di «fagiolini» (gli ultimi che non gli lesinano applausi). E nemmeno alle richieste di intervista di Bruno Vespa. Così Bertinotti aveva appena archiviato la disastrosa sconfitta subìta al congresso di Rifondazione (il suo candidato, Nichi Vendola, è stato messo incredibilmente in minoranza con il 47%, anche e sopratutto per l’ostilità che si era accumulata contro di lui) ha fatto un altro scivolone imperdonabile agli occhi degli ex compagni: ha incautamente dichiarato - in una intervista per l’ultimo libro di Bruno Vespa Viaggio in una italia diversa - che «il comunismo è ormai indicibile». Ora, a parte che Vespa è uno che ai politici italiani riesce a strappare qualunque cosa, i militanti del Prc non l’hanno presa bene, e Bertinotti è a rischio fischiaggio in molte sedi del suo partito (gli è successo anche il 12 ottobre al corteo antigovernativo promosso da Rifondazione).
Incivili, certo. Ma per tornare a «volare alto» Fausto doveva trovare il modo di far dimenticare quelle revisioni vagamente gossipare dell’utopia comunista. Così, ieri, su Liberazione, ha pubblicato il suo nuovo manifesto, una sorta di vademecum per risollevare le sorti della sinistra. E qui, per chi si è pazientemente letto la doppia lenzuolata bertinottiana, qualche sorpresa è arrivata. Per esempio alla tesi numero 8): «Era già evidente dopo la sconfitta che la rinascista della sinistra sarebbe dovuta essere, in realtà, un cominciare da capo. Tutto ciò che accade, avvalora questa tesi. Il rinnovamento nella continuità che sarebbe stato possibile fino a ieri - avverte Bertinotti - oggi è impossibile». Seconda doccia scozzese per i militanti, al punto 11): «Si tratta di ricominciare da capo... Non sarà un caso che nel rinascimento della sinistra latinoamericana, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi Paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista». Quindi, se mai non fosse chiaro, l’ennesimo certificato di morte per la storia politica del «comunismo». Punto 12) «Il Pd non è di sinistra, non per la composizione della sua base sociale, ma per la natura intrinseca del partito e del suo progetto politico». Nostalgie uliviste? Macché, al punto 13) Bertinotti stila un altro certificato di decesso, quasi impietoso: «Il centrosinistra è finito, ed è finito insieme alla sua tormentata, speranzosa, ma al fondo fallimentare stagione». Caspita.
Ma è il punto 15), l’ultimo, quello che stupisce più di tutti, non solo per il contenuto politico, ma addirittura per le scelte lessicali. Se non ci fosse la firma di Bertinotti, infatti, leggendo un singolo passo, sembrerebbe di sentire parlare Umberto Bossi, il leader del Carroccio in persona. Scrive infatti Bertinotti: «Il centralismo romanocentrico, figlio non più dell’esigenza nazionale di una formazione compatta di combattimento, bensì della governamentalità, e della centralità delle istituzioni della politica va spezzato in radice, dalle fondamenta». Morale della favola? «Va fatta, nell’organizzazione della politica della sinistra - scrive Bertinotti - la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla pianificazione dei ruoli dirigenti tra autonome strutture regionali, la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese, eccetera».

Parola di Fausto Bertinotti - pardon - Bertibossi.

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