Bertinotti ora teme Follini

Al segretario Prc, contrario alla Grande Coalizione, «offerta» la presidenza della Camera

da Roma

Duro, il gioco all’ala. Sempre di scatto, sempre costretti a smarcarsi, sempre chiamati ai traversoni al centro, per poi magari ritrovarsi isolati sulla fascia. È sulla scorta di questi rudimenti calcistici che Fausto Bertinotti sta rendendo il ruolo di Rifondazione e quello personale nell’Unione tre volte più «avvertito». Asse di ferro con Prodi, «mossa del cavallo» a sinistra per non farsi risucchiare da operazioni «politiciste» quali la lista Arcobaleno, impegno governativo tutto da inventare e assunzione, semmai, di responsabilità istituzionali.
Fatto è che la strategia bertinottiana tiene conto già da qualche tempo di quella che il segretario ha più volte definito «deriva centrista». La grosse koalition all’amatriciana è una tentazione presente già da mesi, forse da ancor prima della timida avanzata del professor Monti, oggi fatta propria da Follini. Lo scenario potrebbe cambiare, dopo le elezioni: pur non credendo al concretizzarsi del progetto, Rifondazione si prepara a confrontarsi con situazioni inattese. Appunto, un progressivo isolamento che miri a imbarcare nell’Unione i reduci folliniani.
Ciò che fa riflettere i rifondatori - prova ne sia un’analisi comparsa ieri sul quotidiano Liberazione a opera del direttore Piero Sansonetti - è ciò che si agita dentro la Quercia. Se l’ex segretario dell’Udc rileva il «troppo fiato» concesso alle «posizioni estreme delle ali» e sogna una nuova legislatura «non affidata ai manifestanti della Val di Susa e a Bifo (l’anti-Cofferati di Bologna, ndr)», molto «ambigua» viene ritenuta la risposta arrivata da D’Alema. Pronto a far sapere «a Follini, perché intendano le forze economiche e sociali che sono dietro a Follini (Montezemolo, per esser chiari)», che le sue posizioni sono «ragionevoli». Sansonetti, che ricorda di essere uno che «conosce bene le vicende del Botteghino», non ci vede chiaro. Il «no» di D’Alema alle profferte folliniane, scrive, «ha molte più sfumature di quanto sembri». L’ambiguità dei sorrisi e di certe battutine, della controproposta a Follini di «venire lui con noi», non fa presagire nulla di buono. D’Alema, scrive Liberazione, «continua ad aprire a Follini, in attesa magari di un’intervista che segnerà un’altra tappa sulla strada della grande coalizione». Tutto il contrario di Prodi, che ha ottime ragioni per dare l’altolà a un progetto che metterebbe «a rischio il suo stesso ruolo».
Per questo Bertinotti se rafforza da un lato la fedeltà a Prodi, dall’altro non deflette dall’identità di sinistra (vedi l’appoggio al sit-in di domani contro la guerra in Irak). È pronto a giocare su qualsiasi scacchiere e, come si dice, ad accettare la candidatura a presidente della Camera. Postazione di prestigio e privilegiata per intercettare qualsiasi «ambiguità».

Non ci vuole molta malizia per ricordare che nel ’76 alla carica fu chiamato Pietro Ingrao, oggi nume tutelare del bertinottismo, proprio quando Moro e Berlinguer inauguravano la stagione della «solidarietà nazionale». Una storia che qualcuno non vede l’ora di ripetere.

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