Bidelli poliziotto, ultimo paradosso della scuola

Gli insegnanti in crisi sono ormai rassegnati, come sul blog «Vita da prof»: «Sono reduce da un collegio docenti. Pessimo come al solito. Da chiedersi: ma che ci faccio qui?»

Vittorio Macioce

È solo un blog. Si chiama «Vita da prof». La professoressa che lo cura è di Verona: Rosanna Rota. Gli insegnanti, qui, si raccontano, come in un diario, il libro di bordo di un naufragio. Qualcuno ogni tanto grida: «terra». Poi torna a sedersi. Era un abbaglio. Leggi. C’è la breve cronaca di un collegio docenti, una di quelle riunioni che speri di lasciare al più presto, mentre lo stomaco borbotta e la mente combatte contro la catalessi. L’insegnante non si firma, ma deve essere piuttosto giovane. È una questione di stile. Scrive: «Sono reduce da un collegio docenti. Pessimo, come al solito. Sconsolante. Da chiedersi: ma che ci faccio, ma che ci facciamo qui? Da nascondersi, per le miserie che emergono. Per i non-argomenti che vengono trattati. Per il modo in cui riusciamo a svilire anche i più importanti. Se ci vedessero gli studenti. Facciamo tutto quello che rimproveriamo loro: chiacchieriamo a voce alta, non ascoltiamo il relatore di turno, interveniamo a sproposito, ci accapigliamo per futili motivi. Da urlare. Da piangere. Da strapparsi i capelli. Fuori imperversa un temporale. Stanno tutti litigando per l’ennesimo motivo del cavolo. Il caos primordiale è nulla al confronto. Il bello è che mi lascio trascinare anch’io nella bagarre. Usciamo tutti irritati e depressi. Il cielo, nel frattempo, si è sgombrato. È comparso un enorme, splendido arcobaleno. Là fuori, per fortuna, c’è la vita».
La scuola, allora, è la morte. È questo il concetto che sta passando, come un luogo comune, come una necessità. I professori hanno gettato le armi, quasi tutti. Qualcuno sogna la fuga, qualcun altro si rintana, c’è chi cerca di sopravvivere, chi si adegua, che sogna di fare il grande salto nell’università, e prova concorsi da ricercatore. C’è chi scrive libri e chi ha smesso di leggerli. C’è anche qui, qualche volta, perde la testa. E poi ci sono i Don Chisciotte, minoranza tenace e in fin dei conti anche abbastanza numerosa. Sono quelli che si mettono l’elmo da cavaliere e combattono i classici mulini a vento. Sono quelli che scrivono: nella scuola dobbiamo starci. «Noi, cari colleghi, che nella scuola ci dobbiamo vivere e lavorare, nella scuola così com'è fatta, con queste aule (orribili), questi studenti (frutto della società in cui sono cresciuti), questi colleghi (qualcuno bravo, qualcuno meno), questi dirigenti (che seguono le direttive ministeriali e nient'altro)». Capitani, miei, capitani non si lascia la nave che affonda. Ma purtroppo non basta una citazione di Whitman e la visione de L’attimo fuggente, con il professor Robin Williams e la sua «setta dei poeti estinti» per risollevare la testa.
I presidi con l’autorità di carta, manager senza portafoglio. Professori senza cattedra. Bidelli in crisi d’identità. Ora si chiamano «collaboratori scolastici» e i loro compiti sono diventati tanti e indefiniti. Spetta a loro, come poliziotti di corridoio, tenere a bada bulli e meno bulli. Tocca a loro occuparsi dei disabili, come infermieri. Tutto questo, però, senza una vera qualifica, improvvisando per mille euro al mese. E poi gli studenti: vittime o carnefici. Ora tutti guardano alla violenza, al sesso, ai telefonini con videocamera, ma il marcio è ancora più nascosto. La scuola, da sempre, nei sogni di filantropi ed educatori era il mezzo che assicurava a un Paese la «mobilità sociale», l’emancipazione. Non era importante da dove venivi, da quale periferia, da quale campagna, la nascita dei tuoi genitori, il dialetto che la sorte ti aveva assegnato. Era una scuola rigida, nozionista, in cui, certo, le differenze sociali si facevano sentire. Il figlio del farmacista partiva in prima fila, quello del contadino con l’handicap. Tutto vero. Ma era comunque una porta verso l’alto. La scuola aveva il potere di rimescolare le carte che la vita ti aveva assegnato. Tutti quanti, presidi, professori e bidelli concordano su un punto. Questa porta si è chiusa.
È sera. Qui in redazione squilla il telefono. La voce, con forte accento napoletano, è di Vincenzo Esposito, 55 anni, bidello, anzi collaboratore scolastico, da trentatré. Lavora alla Pascoli 2 di Secondigliano. Zona di camorra. Dice: «Scriva. Scriva questo. Se i ragazzi fanno i bulli è colpa dei bidelli. Sono loro che devono far rispettare la legge. Questa è una scuola difficile, ma non ci sono guai».

E la camorra? «La camorra c’è, ma fuori. Qui ci sono i figli dei boss. Ma non danno problemi. I padri sono assassini e delinquenti, ma ai figli dicono che il professore va rispettato». Ecco come lo Stato perde le sue battaglie.

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