«Bimbi scartati anche per un dito»

«Il 99,7% delle coppie sceglie l’eliminazione del feto se c’è un difetto fisico, anche se piccolo»

Quando le coppie si presentano da lui è solo per quella che in gergo medico viene definita la «second opinion». Il sospetto già c’è. L’ecografia e le altre analisi hanno segnalato qualcosa di strano, un’ipotesi di malattia, un gene che non torna. Al centro di diagnosi prenatale Artemisia, la clinica più grande d’Europa, seconda a livello mondiale solo a Boston, il professor Claudio Giorlandino, cattolico, presidente della Società italiana di diagnosi prenatale, vede 150, 200 donne al giorno. È qui che le madri leggono il destino del figlio che sta per nascere. E decidono, con un sì o con un no. Vita o morte, provvidenza o selezione, destino o conoscenza.
Come reagiscono i genitori di fronte ad una diagnosi prenatale negativa?
«Oggi, anche se resta l’idea di fondo di sacralità della vita, la tendenza delle coppie è verso la totalità. L’imperfezione fa paura, non si accetta. Su cento diagnosi di patologie il 99,7 per cento sceglie l’aborto. Un numero altissimo, che non fa distinzione tra coppie laiche o cattoliche, giovani o mature, borghesi o proletarie».
Quanto pesa l’esigenza di perfezione?
«Io stesso nella mia famiglia ero contrario all’amniocentesi, poi mia moglie ha insistito e ha fatto l’esame. Ma io avrei tenuto mio figlio a priori, senza nessuna “anticipazione”. Le famiglie quando decidono di volere un figlio lo vogliono sano e vogliono sapere con certezza scientifica cosa nasconde il suo futuro. E se un padre e una madre chiedono di sapere la scelta è già stata presa per metà. Se sai, spesso correggi».
In quali casi i genitori rifiutano un figlio?
«Ci sono espressioni di malattia gravissime. Ma a volte entrano mamme facendosi il segno della croce e appena scoprono una piccola malformazione, scelgono di eliminare il feto. Qualche tempo fa arriva qui una mamma. Si scopre che c’è qualcosa nella mano che manca, una malformazione. La signora sbianca e decide per l’aborto. Io, a quel punto, la guardo e chiedo: “Ma se il suo bambino dovesse cadere e perdere un dito, che fa: gli spara?”. La donna mi risponde secca: “Fino a quando ho il controllo decido io”».
Quando decidono invece di tenerlo?
«Quando spiego loro che la patologia c’è ma è correggibile. Allora lasciano una porta aperta. Corrono subito dal pediatra per un consulto. Si informano, cercano di capire se il tipo di malformazione sia un peso non troppo ingombrante».
Quanto incidono le parole e l’atteggiamento del medico?
«Io, per scelta, mi rifiuto di dare consigli. Ognuno deve fare i conti con le proprie forze e le proprie paure. Ma tutti noi medici, anche senza volerlo, orientiamo la scelta. Succede di influenzare anche solo con un’espressione del volto, con il tono. Siamo persone anche noi. Il resto è tutta una questione di coscienza».
E la sua coscienza? Mai stata sconvolta dalla scelta di qualche genitore?
«Le racconto un caso limite. Una decina d’anni fa una giovane coppia di Frosinone si presenta per una second opinion. Arrivano al centro con tutti i parenti. Una famiglia molto religiosa, neocatecumenale. Si diagnostica una sindrome di Down gravissima. La famiglia accoglie la notizia in modo sorprendente: abbracci e gioia. Li sento esclamare: “Dio ci sta mettendo alla prova”. Erano tutti visibilmente commossi ma felici.

Il bambino nasce con gravi disturbi, la famiglia, schiacciata dalle difficoltà si sfalda. Marito e moglie divorziano. Quattro anni dopo mi vedo arrivare una citazione da parte della madre. Forse non bisogna chiedere troppo a Dio».

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