Come tutti quelli nati con la camicia, Mancini non sopporta le bufere. C'è gente che nasce con un'inguaribile propensione alle vittorie, alle celebrazioni, agli applausi, ai complimenti. Anche alle adulazioni (scrisse il vecchio Hugo: «È difficile resistere agli adulatori, perché ciascuno di noi è convinto che almeno il cinquanta per cento di quanto ci dicono sia vero»). Quando però cambia l'aria, questa gente cambia aria. Non ce la fa proprio. Scantona, rincula, rifiuta l'ostacolo. Di questo tenore, il gesto dell'altra sera: a macerie ancora calde, il capo annuncia che se ne va.
Diciamolo: è una reazione che sa molto di uterino. O di bimbo viziato, che quando non vince fa volare le carte. Nel kinderheim del calcio italiano, Mancini è forse il bimbo più viziato di tutti. Quando giocava a Genova, era coccolato da quel papà innamorato che si chiamava Mantovani. Attorno a sé, tutta una corte di cantori adoranti, che spacciavano ogni suo tiro e ogni sua parola per concessioni d'artista. Poi, chiusa la carriera di giocatore, ecco il Mancini allenatore sotto la cura Moratti: praticamente, come se ogni estate passasse Babbo Natale. Solo per lui.
Evidentemente, Babbo Natale è ripassato anche dopo il capriccetto dell'altra notte. Un bel confronto, tutto rientra. Mancini, che a San Siro aveva specificato come la decisione fosse già presa da un po', cioè meditata, adesso chiede scusa, chiede comprensione, e specifica: era solo uno sfogo. Che dire: è tutto in perfetto stile Mancini. Annuncio plateale, brutale retromarcia. Capacissimo che fra due mesi ricominci da capo. Molti, difendendolo, parlano di fisiologica fine di un ciclo. Ecco, diciamo pure qualunque cosa, ma cerchiamo almeno di non scherzare. Vincere uno scudetto e mezzo può chiudere un ciclo a Verona o a Cagliari, come difatti è successo. Ma questa è l'Inter. Per le spese sostenute, per il prestigio della società, il ciclo è appena cominciato. È ancora agli albori.
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