La Birmania è un carcere a cielo aperto. E i morti sono molti di più

La popolazione terrorizzata non esce di casa, i principali mercati sono chiusi: le strade presidiate dalle mitragliatrici dell'esercito. Nei monasteri sono rimasti soltanto i monaci anziani, gli altri sono tutti nelle prigioni del regime, più di mille sono detenuti nella sola capitale. Arriva l'inviato dell'Onu: "Lei qui non entra"

La Birmania è un carcere a cielo aperto. E i morti sono molti di più

I dodici senescenti tiranni l’hanno ribattezzata Yangoon, ma la vecchia Rangoon nelle loro mani è semplicemente una città in catene. La protesta è un ultimo lucignolo. Una fiammella impazzita, un esile scintillio in quel plumbeo squadrato dispiegamento di camion, soldati e mitragliatori spianati. Uccisioni e sparatorie, cariche e bastoni non l’hanno ancora uccisa, ma di certo affaticata, di certo provata. Così, in questo sabato d’attesa, la rabbia si siede, si piega, si raccoglie a pigliar fiato. Di tanto in tanto rialza la testa, prende le sembianze di un centinaio di giovani scalmanati, schizza repentina sotto gli occhi spenti di capi manipoli e soldataglia. Sfrecciano le bandiere rosse, scintilla l’oro del pavone combattente, riprendono smalto i simboli della Lega della Democrazia, riecheggia il nome di Aung San Suu Kyi, l’indomita paladina di liberta e democrazia. Ma dov’è? Forse nella dimora presidiata, forse pure lei in prigione. I suoi sostenitori sono scintille e schegge rilucenti nel grande infinito buio della paura. Agitano la strada, corrono, scompaiono prima che gli scherani abbian tempo di far correre il dito sul grilletto. Quando la lunga raffica spezza il silenzio di Rangoon loro sono già un vociare lontano, grida senza più né volto né corpo. Ologrammi di rivolta pronti a punteggiare la città. È il gioco del gatto con il topo, il segnale che sotto la cenere il fuoco della rivolta arde ancora. La smentita flebile, ma viva, alle articolesse di regime, ai peana con cui le gazzette di Stato elogiano «la pace e la ritrovata stabilità», inneggiano all’abilità delle forze di sicurezza, alla loro capacità di controllare la protesta «con attenzione e con il minimo possibile di violenza» .

Le voci sul reale bilancio di morti e feriti nel corso degli scontri di giovedì continuano a moltiplicarsi, le cifre a lievitare. Se per la giunta militare l’ordine ristabilito è costato una decina di vite umane, per l’opposizione il numero dei cadaveri è almeno venti volte più alto. Per farli sparire, per nasconderli, per risparmiarsi l’indignazione internazionale i militari li avrebbero raccolti, rimossi, trasferiti in fosse senza nome e senza insegna.
La famigerata prigione riservata ai dissidenti sembra un nuovo affollato monastero. Ormai là dentro ci sono solo monaci. Dicono più di mille. Così tanti che per far posto a tutti si è dovuta aprire una dependance nel contiguo Istituto governativo di Tecnologia. Li hanno arrestati nella notte tra mercoledì e giovedì quando soldati e poliziotti antisommossa hanno profanato Ngwe Kyar Yan e gli altri templi, bastonato i religiosi, fatto razzia di oggetti preziosi, distrutto simboli e decori religiosi. Un monaco anziano e venerato ammesso ieri a far visita ai suoi fratelli racconta di giovani spogliati dei loro sai e mortificati con i panni della prigione. Alcuni di loro han già conosciuto il tribunale speciale, sono già stati condannati a sei anni di reclusione.
Ma la prigione non finisce al cancello del carcere. Per la popolazione terrorizzata l’intera Rangoon resta, nonostante l’arrivo dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari, un carcere a cielo aperto, un deserto di mitragliatrici e uniformi in cui pochi osano avventurarsi. E in quel grande lager anche procurarsi il rancio diventa difficile.

Il mercato di Theingyi, uno dei più frequentati della città, è chiuso da quattro giorni. Chi apre fa pagare a caro prezzo la propria audacia. I prezzi sono aumentati di quattro volte, ma intanto l’offerta di cibo e merci cala paurosamente, i magazzini si vuotano a vista d’occhio. Alcuni negozianti fanno sapere di aver cibo per tre giorni al massimo. Poi, se la città non si rimetterà in moto, se non riprenderanno i commerci, la popolazione dovrà rassegnarsi alla fame e alle ristrettezze. Per ora la giunta non sembra voler mollar il colpo.
«Ci sono circa 16 camion dell’esercito con sei o sette mitragliatrici puntate in Sula street e poi almeno altri due furgoni pieni di miliziani, sembra di stare in un quartier generale», racconta via e-mail un anonimo cittadino. Ma almeno il suo racconto ha ritrovato la strada di internet, tagliata venerdì per volere del regime. La mossa, quasi dovuta in vista dell’arrivo di Gambari, non risolve i dubbi, non cancella le indiscrezioni, sempre più insistenti, di dissensi, rivalità e scontri personali ai vertici della giunta militare.

A rafforzarli concorrono quelli sugli scontri nella giungla tra reparti rivali dell’esercito. Contribuiscono i confusi movimenti di alcune unità in marcia verso Rangoon dopo aver abbandonato le trincee del confine orientale dove ferve la rivolta decennale dei Karen e delle altre minoranze etniche.

La prossima scintilla, la spinta capace di far traballare il regime, potrebbe arrivare da quella turbolenta frontiera, dallo scontento di generali e ufficiali pronti ad allearsi con i gruppi insurrezionali pur di metter fine alla dittatura.

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