Birra, e vuoi sapere cosa bevi

Paolo Marchi

Uno dei più fortunati slogan pubblicitari è legato a un Renzo Arbore cinquantenne che si accingeva a bere una bionda pronunciando poche, ma decisive parole: «Birra, e sai cosa bevi». Ero vero, raro caso di pubblicità che non diceva bugie o nascondeva trucchi. Peccato però che a lungo pochi andavano oltre quelle cinque lettere, una b, una i, due erre e una a. Ai più bastava letteralmente sapere che nel boccale c’era della birra, intesa come bevanda dissetante e poco alcolica, e tanti saluti al reale mondo birroso che non è certo riducibile a un qualcosa un gradino sopra la gazzosa e uno sotto il frizzantino da uve ignote.
Era un consumo di scarso spessore, come quei camerieri che, senza nemmeno informarsi su cosa avresti mangiato, ti chiedevano «rosso o bianco, signore?», che se uno era di luna storta rispondeva «un rosato di lungo invecchiamento» e poi si metteva in attesa della reazione. A livello di birra nemmeno questo, al ristorante era già tanto se ne trovavi una generica, al punto che un’eventuale domanda tipo «bionda, rossa o nera signore?» avrebbe rappresentato un passo in avanti. Ma non mancavano le eccezioni senza logica, come la Corona, a un certo punto presente ovunque, una moda in una nazione dove nel 1996 erano presenti sul mercato 86 diversi marchi birraioli.
E se 86 può sembrare chissà quale abbondanza, per ricredersi basta leggere la ricerca appena ultimata da Assobirra, l’associazione degli industriali della birra e del malto, www.assobirra.it, che domani a Milano presenterà una serie di iniziative legate a un più qualificato consumo di un prodotto che merita di essere conosciuto a fondo. In dieci anni la scelta è in pratica raddoppiata, passando da 86 a 170, anche se rimaniamo i cenerentoli d’Europa quanto a consumi. Fatta la media continentale, 29 litri a testa, valore costante dal ’95, ci attestiamo a circa un terzo con 29 litri annui a testa contro i 24 di undici anni fa. Nei tre mesi estivi, i più caldi, ogni italiano ne beve 14 litri. Tanto? Non ci vuole poi molto, bastano due lattine da 33 centilitri e ci siamo senza accorgercene. Crescono i siti dedicati, ad esempio www.mondobirra.org/micro, le offerte, con i supermercati a farla da padrone (il 53,7% della birra è venduta lì, dato in crescita, contro il 38,5% di bar, pizzerie e ristoranti, dato in discesa), escono guide e cresce il collezionismo, riparte la produzione alla Pedavena, www.birreriapedavena.info, vicino Feltre in Veneto, proliferano i microbirrifici riconducibili a Unionbirrai, wwww.unionbirrai.com. L’ultimo è stato inaugurato a fine giugno a San Cassiano di Moriano in provincia di Lucca, il Bruton, che tra i padri ha anche un produttore di vino, Agostino Lenci, titolare dell'azienda vitivinicola Fattoria di Magliano in Maremma. E a Spigno Saturnia, in provincia di Latina, ecco Top Malto.
Soprattutto, quando oggi pensi alla birra non ci si accontenta più di sapere che nel bicchiere c’è birra, si vuole sapere che birra è, con i grandi produttori che non possono rimanere fermi e si mettono a correre pure loro dietro ai gusti di una vasta clientela potenziale. Si tenga ad esempio conto che 7 italiane su 10 non bevono birra. I colossi, riuniti in Assobirra, si chiamano Heineken, 34% della produzione nazionale grazie anche alla Moretti, Peroni con il 25, Carlsberg con il 9 e Inbev (sue Leffe e Beck’s) con il 7, quinto associato la Teresianer per un totale di 16 stabilimenti sul suolo nazionale che danno lavoro a 25mila persone. Siamo i noni produttori dell’Unione Europea dopo Germania, Regno Unito, Spagna, Polonia, Francia, Repubblica Ceca, Olanda e Belgio. Non sorprende, visto che l’inasprimento fiscale negli ultimi due anni ha portato a una contrazione della produzione, scesa da 13,1 milioni di ettolitri del 2004 a 12,7 nel 2005. È aumentata l’importazione, da 4,8 a 5,2 milioni, soprattutto da Germania, Olanda e Danimarca, segno che la birra piace e che non andrebbe tartassata, ma assecondata nella crescita per non frenarla.
La Makno, in collaborazione con Assobirra, ha studiato la realtà confermando quello che è nell’aria, il desiderio degli appassionati di saperne di più, di andare al ristorante e di avere anche una carta delle birre e così via. La decima indagine ha interessato 1.998 persone in maggiore età. Ha detto Mario Abis, presidente della Makno: «Nel ’97 appena il 34,8% diceva che prestava attenzione al valore della birra in sé, ora siamo al 54,5». Questa dato va a braccetto con un altro: il 17,4 la beveva per abitudine, adesso appena il 5,1. Insomma, quasi più nessuno procede per forza di inerzia. Addirittura, il 22,1% la beve da solo, la degusta come fosse un grande rosso o un vino da meditazione. E sempre più clienti al ristorante apprezzano il sommelier che va oltre il vino e propone una birra tanto che il 47,5 vorrebbe una carta specifica. Rognone, ricci e birra? Succede da Cracco-Peck a Milano così come al Piccolo Lago di Verbania c’è una carta che attinge da ben 102 microbirrifici. Un pioniere dalla birra nella ristorazione è Lucio Pompili del Symposium a Cartoceto nelle Marche e un fedelissimo Marco Bistarelli del Postale a Città di Castello in Umbria che, eletto presidente dei giovani ristoratori, www.jre.it, ha convinto tutti gli iscritti a imitarlo. E Marco Bolasco, direttore della guida del Gambero Rosso, massimo esperto di birra tra i critici gastronomici, si ricorda come nel ’98 Giorgio Pinchiorri gli disse che la birra non sarebbe mai entrata nella sua enoteca a Firenze, cosa invece successa da poco per il semplice motivo che solo gli sciocchi non fanno i conti con la realtà.

Ci si può solo augurare che non spuntino i tromboni capaci di distinguere mille e un retrogusto, magari riciclatisi dal mondo del vino, abbandonato dopo averlo reso insopportabile.

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