Bisagno e l’incontro che gli cambiò la vita

Bisagno e l’incontro che gli cambiò la vita

Ancora sull’episodio di Fascia, sempre sulle precise e puntuali memorie di Elvezio Massai, scomparso non da molto, si possono aggiungere queste considerazioni.
Dopo la requisitoria di «Croce» (Stefano Malatesta) contro lo stesso «Santo», Bisagno rimase stranamente silenzioso, comunque Massai aggiunge che il suo comandante (appunto Bisagno) avesse raggiunto lo scopo prefissato e cioè dimostrare dove si poteva arrivare se il Comando di Zona avesse insistito nella sua opera di prendere provvedimenti contro il primo partigiano d’Italia; ma con tutto ciò Santo e i suoi dell’Alpino rimasero un po’ delusi, anche per l’intensità dei loro sentimenti di alta ed incondizionata stima nei riguardi dello stesso Bisagno.
Della versione dei fatti di Fascia esistono poi due esemplari uguali, però uno firmato e l’altro no. Di fronte alle titubanze di alcuni «Santo» disse: «Andiamo a Fascia, perché il comando generale vuole disarmare “Bisagno”. Forse dovremo usare le armi, ma se qualcuno non se la sente, è libero di non venire e di tornare indietro».
L’osteria di Fascia era a quei tempi di dimensioni piuttosto modeste; in pochi metri quadrati era un continuo vociare e il vociare era immenso, tumultuoso ed assordante.
Nel documento del comando di zona si legge: «Attilio (il comunista Amino Pizzorno) e i suoi compari (partigiani comunisti) lo seguirono».
Ebbene tutto falso. Massai difatti dichiara nelle sue documentate memorie: «Se Attilio avesse davvero parlato energicamente come minimo si sarebbe trovato fuori della porta senza neppure accorgersene. Si limitò invece subdolamente a fare discorsi demagogici e si guardò bene dall’accennare ai motivi che avevano portato “Santo” e il suo raggruppamento “Alpino” con le armi in pugno a giungere in loco per salvare la vita di Bisagno».
Attilio non fece alcun cenno alla situazione di «Bisagno», non disse affatto che il Pci voleva mandarlo via dalla zona. Non disse nulla di tutto e non dissero nulla tutti gli altri capi, preferendo concentrare tutte le accuse sullo stesso Elvezio Massai.
Che «Miro» (Victor Ukmar) fosse un grande stratega lo potevano sostenere soltanto i dirigenti del Pci per giustificare la loro decisione di metterlo al comando di Zona; di guerriglia in montagna sapeva molto poco o nulla e Santo cita non pochi esempi a suffragio di questa opinione sua e non solo sua.
Santo aggiunge che questo grande stratega (naturalmente presunto tale), venuto dall’est, a differenza di Bisagno, che era costantemente in prima linea, non amava troppo abbandonare il comando di Zona, lontano dalle operazioni belliche, presieduto da un centinaio di uomini e non disdegnando neppure - come si mormorava - le dolci compagnie.
Santo soggiunge inoltre che «Miro», quale comandante di Zona non convocò mai i vari comandanti dei diversi distaccamenti per discutere i problemi militari e che mai dal comando arrivavano informazioni sul nemico (informazioni che il Sip e il Sim - servizi di informazioni raccoglievano in grande copia) e se i diversi capi dei distaccamenti volevano rilevarle, dovevano farlo da soli.
Insomma Miro come comandante in capo era una vera e propria nullità.
Quanto poi a Rolando (Anelito Barontini, poi deputato del Pci e membro del famigerato Kgb sovietico), ben pochi partigiani sapevano della sua presenza; lavorava in silenzio e nell’ombra, comunque era però l’esponente più importante del Pci in montagna e da lui partivano tutte le direttive politiche.
Santo conferma anche che da parte dei comandanti non aderenti al Pci ed indipendenti c’era l’intenzione di arrivare ad una resa dei conti con lo stesso Pci per i continui e prepotenti soprusi e per le infiltrazioni e la propaganda politica e su questo punto c’era anche il pieno accordo con i partigiani di Giustizia e Libertà e conferma pure che Bisagno non aveva alcun diretto collegamento con i dirigenti Dc e che proprio una svolta decisa nei progetti di scissione fra le forze partigiane (Pci da una parte e tutti gli altri dall’altra) si ebbe proprio a Fascia il 7 Marzo 1945.
Chiamando a raccolta con l’Alpino gli uomini del «Vestone» e «Banfi» (Eugenio Sanna) con i suoi distaccamenti - tutti fedelissimi ed in numero consistente - Bisagno pensava davvero di dare il colpo decisivo alla struttura comunista.
Purtroppo le cose andarono diversamente, all’ordine di Aldo Gastaldi (Bisagno) risposero solo il distaccamento Alpino di Santo (Elvezio Massai) e quelli del Vestone.
Banfi, che secondo le istruzioni di Bisagno avrebbe dovuto spostare i distaccamenti della «Berto» verso la Val Trebbia, non si fece vedere.
Arrivarono invece Marzo (G.B. Canepa) e Croce, che si preoccuparono di inveire contro Massai e a prendere le difese del Comando di Zona.
Forse in quel momento Bisagno in assenza di Banfi e con Croce (che non era certo comunista) schierato sulle stesse posizioni del Pci, si rese conto che andare troppo avanti sarebbe stato rischioso, ma secondo Santo fu un grave errore.


Posso concludere affermando che Santo avesse pienamente ragione e ne sono talmente convinto, non solo per aver letto le sue meticolose memorie, ma anche pensando che forse da quel momento la sorte dell’eroico primo partigiano d’Italia fu segnata per sempre.

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