Carlo De Benedetti è un capitano d’azienda cui piace stupire. L’ultimo sorprendente lampo è una rivelazione di cui tanti sono convinti da tempo, Bettino Craxi lo disse per primo 20 anni fa. Ma con le sue parole l’Ingegnere mette un sigillo di autenticità su Mani pulite, pagina di storia sofferta e non ancora chiusa. «Certamente il Pci è stato protetto», garantisce oggi De Benedetti. E aggiunge: «Sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti».
La fonte non autorizza dubbi: l’Ingegnere affida le sue verità a un libro (Eutanasia di un potere, Laterza) scritto da Marco Damilano, firma di punta dell’Espresso, settimanale di cui De Benedetti è editore. Il volume ambisce a ricostruire la «storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica» attraverso materiali d’archivio e giudizi dati oggi da alcuni dei protagonisti di allora come Antonio Di Pietro, Enzo Carra, Bruno Tabacci. E appunto l’Ingegnere, coinvolto in inchieste su mazzette per forniture di computer Olivetti alle Poste. «Tutti pagavano, tutti - racconta - nel maggio 1993 concordai con il pool tramite l’avvocato De Luca che mi sarei presentato spontaneamente e che mi sarei assunto tutte le responsabilità, indicando un elenco di quattro o cinque operazioni in cui la Olivetti aveva elargito soldi e a chi. Nessun capo di azienda si comportò come me».
Il suo giudizio sulla stagione di Mani pulite è drastico. «Cos’è rimasto di Tangentopoli? Niente. Vista con molto cinismo e con molto distacco e con qualche amarezza viene da dire che quell’operazione non ha cambiato il Paese. La bufera è passata, l’Italia è rimasta la stessa». Sotto le macerie di quel terremoto è rimasta una parte importante della politica, ma non tutta. Il partito comunista, per esempio, fu risparmiato. Adesso lo riconosce anche De Benedetti, che con i suoi giornali ha sempre fiancheggiato la sinistra: «Certamente il Pci è stato protetto, perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti, non la politica. Affondarono il coltello in una marmellata, non trovarono nessuna resistenza, non c’era più niente».
L’Ingegnere ridisegna il ruolo dei magistrati milanesi cui il suo gruppo editoriale ha sempre riservato un trattamento di favore. La «combinazione di protagonismo dei giudici e di un vaso ormai troppo pieno» spinse in una sola direzione. «Di Pietro - ricorda - era un fulmine e una valanga. Il pool era composto da persone molto diverse: Borrelli era molto più raffinato, Colombo era un magistrato di grande qualità, Davigo un uomo specchiato che lavorava per far rispettare la legge, Di Pietro aveva una forte carica di esibizionismo personale, di popolarità e di populismo, ognuno aveva la sua parte, fecero saltare il sistema. Era come una catena delle caramelle, un caso ne tirava un altro».
Ma l’Ingegnere aggiunge dettagli nuovi anche alla guerra di Segrate, che secondo Damilano fu la «prova generale dell’ingresso del Cavaliere in politica» e il cui recente epilogo, con il maxiesborso a carico di Silvio Berlusconi, prelude alla fine della Seconda Repubblica. Finora Giuseppe Ciarrapico è apparso come l’uomo chiave del lodo Mondadori. Sbagliato. Fu Luigi Bisignani, che nel libro passa da «boiardo di stato» a «faccendiere» dopo l’arresto nell’inchiesta sulla P4. Su di lui i giornali del gruppo L’Espresso si sono esercitati nel tiro al bersaglio. Eppure ebbe un ruolo chiave proprio nel destino di Repubblica.
Racconta De Benedetti: «Andreotti, che non ha mai potuto vedere Craxi, mi chiamò a Palazzo Chigi, nella sua stanza, e mi disse: “A lei la Mondadori non la daremo mai, è già abbastanza quello che ha con Repubblica. Ma ancor di più io non permetterò mai che Berlusconi si impossessi di Repubblica, è troppo potente già oggi. Dunque dovete trovare una soluzione”. Aggiunse: “E noi la aiuteremo a trovarla: quando lei uscirà da questa stanza troverà nell’anticamera chi le può dare una mano”. Uscii, nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani... Dopo arrivò la mediazione di Ciarrapico».
«Fu Craxi il motore di Berlusconi, non c’è dubbio - sostiene De Benedetti - a Berlusconi della Mondadori non interessava niente, il suo compito era conquistare Repubblica, era lo scalpo da portare a Craxi. Per Craxi rappresentavo la garanzia di solidità economica del quotidiano, al di là della mia condivisione delle idee e della mia amicizia con Scalfari».
Ma anche Andreotti, che chiuse la guerra di Segrate attraverso il suo uomo di maggior fiducia, fu colto di sorpresa dalle inchieste milanesi. Lo rivela nel libro Giulio Anselmi, oggi presidente dell’Ansa e degli editori (ha preso il posto di Carlo Malinconico) che tra febbraio e settembre di quel 1992 guidò il Corriere della Sera tra le direzioni di Ugo Stille e Paolo Mieli. «Una volta mi chiamò Bisignani - rievoca Anselmi - andai a Palazzo Chigi sperando di ricevere qualche notizia. E invece fu Andreotti a chiedermi cosa stesse succedendo a Milano e fin dove si sarebbero spinti i giudici».
Anselmi fa autocritica: «Abbiamo sbagliato a
dare troppa briglia ai giudici, abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità, abbiamo sbagliato a non riflettere subito sugli eccessi delle indagini e sul giustizialismo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.