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Boffo ha mentito: ecco la prova che lo sbugiarda Feltri: "Le proteste frutto del doppiopesismo"

Gli atti sul procedimento per molestie demoliscono del tutto la versione di Boffo: conosceva la donna che lo denunciò e solo lui può aver fatto le telefonate. Feltri: "Le rivelazioni non legate ai respingimenti". Il gip nega l'accesso indiscriminato agli atti

Boffo ha mentito: ecco la prova che lo sbugiarda 
Feltri: "Le proteste frutto del doppiopesismo"

Roma - Il direttore di Avvenire, Dino Boffo, ha mentito. Lo dimostrano le sue stesse dichiarazioni con cui, in questi giorni, ha tentato di difendersi, accusando di «killeraggio» il nostro giornale. E lo dimostrano, ancor più, gli atti giudiziari, contenuti nel fascicolo a lui dedicato dalla Procura di Terni. Nel decreto penale di condanna, emesso a suo carico dal Gip del tribunale di Terni, Augusto Fornaci, il 9 agosto del 2004, e consegnato ieri in copia ai giornalisti, si legge che « Boffo Dino, nato ad Asolo il 19 agosto del 1952, è stato imputato del reato di cui all’articolo 660 c.p. perché, effettuando ripetute chiamate sulle sue utenze telefoniche, nel corso delle quali la ingiuriava anche alludendo ai rapporti sessuali con il suo compagno per petulanza e biasimevoli motivi recava molestia a... omissis». Nel corso dell’indagine, hanno dichiarato in Procura a Terni, sono stati sentiti alcuni testimoni che hanno «confermato la conoscenza tra il direttore di Avvenire e la donna che lo denunciò per molestie personali». Deposizioni che figurano tra gli atti del fascicolo, secondo quanto riferito dal Gip di Terni, Pier Luigi Panariello, che ha autorizzato i giornalisti a prendere visione ieri del decreto di condanna. Il giudice ha confermato che «agli atti non ci sono intercettazioni ma i tabulati telefonici relativi alle utenze di Boffo». Panariello ha quindi spiegato «che il giornalista si difese sostenendo di non essere l’autore delle telefonate. Ma questa tesi - ha aggiunto - non è stata approfondita non essendo stata evidentemente ritenuta attendibile da chi indagava».
Queste affermazioni del giudice non hanno bisogno di particolari interpretazioni. Chi ha fatto quelle telefonate di molestia è stato Dino Boffo. E il telefono di Boffo è stato usato solo da Boffo. Ecco perché la tesi difensiva, tentata all’epoca da Boffo, fu scartata immediatamente e viene definita oggi «inattendibile». Ecco perché, convinti dalle prove, che fosse lui il molestatore e che fosse stato lui a ingiuriare ripetutamente la malcapitata signora con frasi dal chiaro contenuto sessuale, i giudici lo condannarono. Quindi Dino Boffo mente. Mente quanto sostiene che non c’era «nulla di sessuale» in quelle telefonate. Mente addossando la colpa di quanto è accaduto ad un morto. A un ragazzo tossicodipendente che avrebbe avuto libero accesso al suo telefono e che da quel telefono avrebbe molestato, insultandola, la moglie di un uomo del quale quel ragazzo si era invaghito. Ricordate che cosa ha sostenuto fino a ieri Boffo? Che verso la fine del 2000 avrebbe scelto come suo collaboratore un ragazzo che era ospite della Comunità incontro, il centro di recupero per ex tossicodipendenti fondato da don Pierino Gelmini vicino ad Amelia, in Umbria. Era un modo per aiutare una persona in difficoltà a ricostruirsi una nuova vita. Ma sarebbe stato proprio quel ragazzo a fare quelle telefonate insistenti alla donna di Terni che poi ha querelato per molestie il direttore dell’Avvenire. Boffo - così sostiene, ma i giudici che hanno svolto le indagini non ci hanno mai creduto -, avrebbe deciso di proteggere il ragazzo preferendo chiudere la vicenda nel più breve tempo possibile. E sarebbe stato questo motivo a spingerlo a patteggiare davanti al giudice per l’udienza preliminare di Terni e a pagare (anche se aveva quindici giorni di tempo per fare ricorso) l’ammenda di 516 euro. Bugie, dunque. Solo bugie. A sostegno di una tesi fragilissima, scartata dai giudici come emerge oggi dalle carte. Peccato poi, se non bastasse la condanna inflittagli, che ci siano anche dei testimoni, amici di quel ragazzo, che smantellino la ricostruzione di Boffo, affermando al contrario, che quel ragazzo non era omosessuale, non è mai stato ospite della Comunità di don Gelmini. E non avrebbe potuto avere libero accesso al telefono del direttore dell’Avvenire. Quel ragazzo è soltanto morto, sfortunatamente per lui. Non è ancora tutto. Nel fascicolo giudiziario a carico di Boffo, dichiarano dalla Procura di Terni, «figurano anche altri atti» che sono stati per il momento secretati perché «possono - parole dei giudici - prestarsi ad ambiguità».

Di quale ambiguità si tratti lo sapremo, probabilmente, nei prossimi giorni. Nel suo vano tentativo di difesa il direttore di Avvenire, il giorno dopo la pubblicazione dei nostri articoli, aveva definito «Quello citato dal Giornale» non un «fantomatico atto giudiziario» ma «una vera sola», una «patacca» che si potrebbe «spulciare riga per riga» per controbattere «e far emergere di quel testo anzitutto l’implausibilità tecnica, poi magari sostanziale».

Bugie, alla luce di quanto emerge dal decreto penale di condanna. Così come è una bugia l’affermazione di Boffo: «Non conosco, non ho mai conosciuto quella donna di Terni» perché i giudici hanno ieri confermato «la conoscenza tra il direttore di Avvenire e la donna che lo denunciò per molestie personali». «Bisogna che i lettori di Avvenire sappiano che cosa è in realtà - scriveva giusto ieri il direttore - la sentenza giudiziaria maneggiata come un manganello da Vittorio Feltri e dal giornalista Gabriele Villa: uno sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e di puro veleno costruito a tavolino per diffamare».

Rileggendo il decreto penale di condanna a suo carico, che non lascia dubbi né può suscitare equivoci, non sembra proprio che le cose stiano così. Si potessero riascoltare quelle telefonate di molestia fatte da Boffo all’epoca, allora forse ci imbatteremmo davvero in uno «sconclusionato e sgrammaticato distillato di veleno».

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