Un pittore, un pianista, uno scrittore è nella Storia, anzi la fa, anche prima di essere un monumento di un'altra epoca. Maria Callas, Nureyev, D'Annunzio, Arturo Benedetti Michelangeli, Pasolini, hanno avuto vite difficili e hanno lentamente costruito la loro leggenda. Sarebbe stato, ed è stato, importante sostenerli e favorirli, mentre costruivano la loro impresa umana, e non perché avessero più diritti degli altri, ma perché dalla loro vita emana una energia vitale favorevole a chi gli è vicino. Scriveva Leopardi nello Zibaldone: «Scopo della vera contemporanea poesia è di accrescere la vitalità». Ed è quello che accade alla lettura de L'infinito, del Canto notturno, del Pensiero dominante, del Tramonto della luna. Ed essere contemporanei non vuol dire essere meno artisti di quelli passati.
Per questo sarebbe stato giusto assistere un Pasolini o una Callas, da vivi, nel già compiuto percorso della loro vita ad arte. Non ho avuto dubbi, così, quando, con grande disprezzo per il suo acuminato valore, Morgan è stato cacciato di casa e buttato sulla strada, lasciandosi alle spalle pianoforti, altri strumenti musicali, spartiti, carte, documenti d'archivio, disegni, poesie, proclami sui muri, che rendevano la sua casa di Monza un santuario. Era giusto, e per me inevitabile, che io intervenissi e mi occupassi di una situazione così scandalosa e umiliante, per contingenze che non possono limitare la forza creativa dell'artista, che ha diritto a quello spazio prima mentale che fisico. Cosa ci resterebbe della biblioteca di Leopardi a Recanati, se lo avessero cacciato di casa per una qualunque ragione? Non potevo non ricordare, oggi, questa emergenza: una delle tante, nella mia vita operosa, che mi impediscono di avventurarmi, con assoluta dedizione, alla ricerca e alla perlustrazione di mondi e artisti perduti del passato. Non è un'impresa che ho mai abbandonato, ma è certo che ne ho ristretto il campo.
Così, quando, questa mattina, ho aperto la posta elettronica e ho visto che, scavalcandomi e anticipandomi nel tempo, altri avevano portato a compimento quello che io da tempo avrei voluto realizzare, ho avuto un moto di irritazione e di invidia, come uno scalatore che abbia mancato di conquistare una cima. Da anni meditavo di rivelare compiutamente al mondo il grande e dimenticatissimo scultore Andrea Bolgi (Carrara, 1606 Napoli, 1656); e adesso, mentre scrivo, in palazzo Cucchiari a Carrara vengono presentati due, sicuramente esaurienti, e copiosi di immagini, volumi, su Giuliano Finelli e Andrea Bolgi, pubblicati per la preziosa tenacia di Giuseppe Silvestri,editore in Pietrasanta. Il primo, forse più noto, non è meno grande, anch'egli di Carrara, anch'egli allievo di Bernini, proprio in competizione con il Bolgi. A ventisette anni, nel 1629, il prodigioso giovane lasciò lo studio del Bernini. La ragione della rottura fu la delusione per l'assegnazione della commissione ad Andrea Bolgi della maestosa statua di Sant'Elena per la Basilica di San Pietro. Un altro motivo più sottile è che non gli sarebbe stato riconosciuto il suo ruolo determinante nella realizzazione di Apollo e Dafne del maestro.
Di poco più giovane, Andrea Bolgi (detto il «Carrarino») resto più a lungo presso il Bernini, e trovò se stesso, come Finelli, soltanto a Napoli; e poi in Puglia, dove realizza quella che viene chiamata la sua Cappella sistina, nella meravigliosa chiesa dei santi Cosma e Damiano, a Conversano, plasmando decorazioni e figure allegoriche in stucco e oro negli spazi popolati dai dipinti di Paolo Finoglia e di Alessandro Turchi, sontuosi caravaggeschi. Molti studiosi, fra i quali Fabrizio Federici, Joris van Gastel e Clara Gelao, hanno contribuito alle doviziose ricerche, ma io ebbi l'illuminazione quasi quarant'anni fa, entrando nella chiesa di San Lorenzo Maggiore a Napoli, dove il Bolgi aveva ritrovato se stesso e superato il suo maestro.
Bolgi arriva a Napoli seguendo le tracce giudiziose di Giuliano Finelli, probabilmente già nel 1650, entrambi in fuga dallo strapotere di Gian Lorenzo Bernini che domina (quasi) incontrastato la scena romana. Il «Carrarino» arriva nella grande città, naturalmente barocca, favorito dal gran nome del maestro. Insieme a Borromini, Finelli, e a Duquesnoy lavora intorno all'altare Filomarino, voluto, realizzato e spedito in casse da Roma dal cardinale Ascanio, poi arcivescovo di Napoli, un esempio sontuoso del barocco romano fuori Roma. Uomo di cultura e raffinato collezionista, Ascanio fece di Andrea Bolgi il suo scultore e decoratore, come Urbano VIII aveva fatto con il Bernini, e gli affidò alcuni incarichi a Napoli. Grazie allo studio e alla ricerca degli storici dell'arte si è incrementato il catalogo del Bolgi, con opere come il busto di Francesco Filomarino, riconosciuto dalla Gelao a Monopoli, e con gli stucchi di Conversano.
Dovevate vederlo, nella sua cappella in San Lorenzo, il Cacace con il volto furbo, alle spalle della moglie severa e imperiosa che lo domina, compiacersi della sua bonaria protezione di giovani ragazze abbandonate. Certo la memoria di Scipione Borghese si ritrova in quei tratti sornioni, da imperiosi che furono in Bernini; ma nessuno aveva mai concepito un uomo più vero, nel carattere e nel temperamento del gaudente. Le opere di quella cappella sono di tale assoluta qualità che io mi chiedevo come avevo potuto non conoscere prima un artista così grande. E capii la sua psicologia leggendo il cartiglio, sotto l'inginocchiatoio della donna, dove, in lettere capitali, si legge, ostentato all'inverosimile, il nome ANDREA BOLGIUS, con la data 1653. Come dire: ecco, sono qui, finalmente da solo, senza la prepotenza di Bernini che mi ha sempre assoggettato. Questo sono io, guardatemi.
E sentite fino a che punto io posso interpretare l'anima degli uomini. Fino al punto più estremo dell'anima dell'uomo. Lo avrei poi intercettato ancora. Sempre più puntuale, interprete di anime. Libero da Bernini, libero dal complesso del padre. Andrea Bolgi. E basta.
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