Ma certo, una coppia così non ha limiti, neanche uno. Riccardo Chailly, direttore d’orchestra, socio onorario della Royal Academy of Music, innamorato di Mahler e Bruckner tra gli altri, nessun confine artistico se non quelli imposti dall’idea di bello. E Stefano Bollani, pianista saltimbanco, vocazione jazz, talento tremendo e passaporto libero, uno che darebbe ritmo anche a un registro contabile. Insieme con una delle più antiche orchestre del mondo, la Gewandhaus di Lipsia, hanno registrato Rhapsody in blue, hanno insomma riletto il più riletto di tutti, George Gershwin, proprio lui da Porgy sings a Catfish row, rispettandolo e perciò esaltandolo davvero. «L’idea è stata di Riccardo», mette le mani avanti Bollani, scherzando. E invece mica tanto. Solo due così, uno di fianco all’altro, avrebbero potuto riuscire nell’impresa più difficile che ci sia, far sembrare nuovo il compositore più eseguito degli ultimi cento anni.
Caro Bollani, obiettivo della sua missione?
«Dare quello che chiamiamo il “tiro”, la tensione ritmica, lo swing insomma».
Impresa difficile, trattandosi di Gershwin.
«È giusto riportare alla luce questa sua caratteristica. Un lato che sempre più spesso le orchestre classiche perdono per strada».
Forse si chiamano classiche per questo.
«Sì, si chiamano così perché trasformano in monumenti anche i compositori ancora viventi. Figurarsi con quelli che non ci sono più. Qualcuno come Rossini ha fatto di tutto per esserlo anche da vivo. Ma Gershwin no: lui era esuberante, brioso, contaminato».
Però quando lo si ascolta nell’esecuzione delle orchestre, queste caratteristiche sono scavalcate da altre, più accademiche e formali.
«E allora Riccardo Chailly ha totalmente ribaltato questo tipo di approccio. Lui non è chiuso nel 1700. E difatti, l’idea di questo disco è sua».
Aridagli. Sicuro?
«E me ne ha parlato con un entusiasmo che non corrisponde alla sua età anagrafica (per la cronaca, ha 57 anni - ndr). Lui credo sia davvero un’eccezione nel suo ambiente, un artista favoloso. E difatti questa coppia proseguirà ancora».
Rivisitando chi?
«Stavolta Maurice Ravel».
Disco complicato: è un compositore dalle orchestrazioni complesse e particolari.
«Una sfida che ci affascina».
E Chailly?
«Lavorando con lui, mi sono accorto una volta di più che questo mondo, il mondo della musica classica, ha bisogno di un maestro così. Non è un “Pierino” guastafeste e anticonformista, che tutto l’ambiente sopporterebbe a fatica e poi liquiderebbe con una pacca sulle spalle. Lui è uno come Bernstein, uno che ha il coraggio di andare oltre».
Anche lei non si fa problemi. A proposito: con la Gewandhaus Orchester come è andata?
«Beh, all’inizio ero un pesce fuor d’acqua».
Ad esempio?
«Loro iniziavano a provare già alle 9 del mattino. Io a quell’ora nemmeno riesco a parlare, figurarsi se suono. Ma, dopo aver superato queste difficoltà pratiche, tutto è filato via benissimo».
Lo sa che anche Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, ha appena pubblicato un disco con brani di Gershwin?
«Ma guarda, me lo ero dimenticato».
Nel 2005 il Guardian ha stabilito, chissà come, che Gershwin è il compositore più ricco di tutti i tempi.
«Senz’altro è avvicinabile da tanti musicisti di diversa estrazione. E poi ha avuto una esposizione mediatica che Mozart se la sogna».
Scusi Bollani, visto che è difficile starle dietro, quali sono i suoi programmi?
«Uscirà un disco live registrato con Chick Corea. E a febbraio farò un piccolo tour suonando canzoni di Frank Zappa».
Frank Zappa?
«Non nelle intenzioni e neppure nei risultati, ma Zappa si avvicina a Gershwin, liberissimo e trasversale. Era uno che in teoria suonava rock ma in realtà affrontava tutti i generi musicali. E ci scherzava sopra».
Un pioniere.
«Guarda i Rolling Stones. Una volta il loro rock era contro, smboleggiava la ribellione dei figli. Ora li ascoltano i genitori. E anche i nonni, a dirla tutta».
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