Fu un classico caso di malasanità. Lincidente automobilistico in cui era stata coinvolta era dei più comuni. Si fratturò il braccio sinistro e si incrinò tre costole. Ma fece tante di quelle storie, lamentandosi per i dolori, a suo dire insopportabili, che i medici compirono il misfatto.
Va detto a loro discolpa che la paziente aveva sempre saputo come ottenere ciò che voleva con due ingredienti opposti: temperamento di ferro e aspetto da scricciolo. Alta 1,47, degli stecchini per ossa, sguardo smarrito, pareva la quintessenza della fragilità. Su questo faceva leva per intenerire e imporsi. Fu così che cedettero anche i dottori e le prescrissero della morfina per alleviare le presunte sofferenze. Una folle imprudenza di cui fece le spese la donna che diventò in breve tempo tossicodipendente. Conseguenza inevitabile in una persona incline agli eccessi come lei. Daltronde, pure la madre - Lina Marsa, una cantante di strada - era morta di overdose.
La Nostra trascorse i dodici anni che le restavano da vivere alternando i successi del palcoscenico ai ricoveri per disintossicarsi. «Non avevo più un posto dove bucarmi», dichiarò uscendo da un ciclo particolarmente ruvido di cure che la guarì dalla droga. Non però dalla dipendenza. Infatti passò allalcol al quale aggiunse, per trovare sollievo ai reumatismi, il cortisone. Un cocktail micidiale che le rovinò lo stomaco. Quando, nei momenti di relativa salute, calcava di nuovo la scena, pareva un mucchietto di ossa. Ma, come sempre, la riempiva con la forza della voce e la pateticità dei gesti. Dietro le quinte però cadeva in convulsioni. A New York dovette interrompere un récital. A Stoccolma svenne sulla ribalta. Inanellava pancreatiti e coma epatici, tresche e amori, entusiasmi e depressioni. Quando morì a 48 anni, pareva centenaria.
Ebbe vita infelice e piena. Nacque nel più misero sottobosco artistico. Il padre, un contorsionista, fu lunico a occuparsi del bebè. Ma, scoppiata la Grande Guerra e richiamato alle armi, luomo dovette affidarlo alla moglie. Unincosciente che non la tenne un giorno con sé. Toccò, quindi, alla nonna materna occuparsene. La vecchia - una megera che faceva spettacoli con pulci ammaestrate - nutriva la piccina intingendo il biberon nel vino per «uccidere i microbi». Tornato in licenza, il padre restò inorridito dalla sordidezza in cui la figlia viveva. La prese con sé e la consegnò alla propria madre. Costei era Madame Titine, tenutaria di un bordello. La piccola fu sistemata nella casa chiusa e le ragazze si presero cura di lei in una triste-gaia atmosfera da novella di Maupassant.
Un giorno la bimba si ammalò di polmonite e le belles de nuit in stuolo, con Madame Titine in testa, la portarono in pellegrinaggio a Lisieux. Teresa del Bambin Gesù la guarì allistante e la Nostra ebbe da allora una speciale venerazione per la santa di cui tenne, in tutte le case che abitò, la statua a grandezza naturale, illuminata giorno e notte.
Seguendo le orme materne, lo scricciolo - che smise di crescere a dodici anni - cominciò a cantare nei vicoli malfamati, per il piacere di ladri e prosseneti. Leplée, un impresario, capitò per caso mentre dava spettacolo e la scritturò per il suo cabaret. Lei stava assaporando i primi successi, quando Leplée fu assassinato. Lo scandalo fu enorme perché luomo era in vista. Il sospetto cadde subito sullambiente criminale dal quale la ragazza proveniva e, in fin dei conti, su di lei che avrebbe attirato lattenzione degli omicidi sullimpresario. Le indagini la scagionarono, ma la carriera sembrava finita prima di cominciare. Non fu così. Entrata ormai nel giro giusto, divenne in breve un simbolo nazionale. Sfidò i nazisti che occupavano la Francia cantando più volte la triste ballata di un suonatore di fisarmonica scritta da Michel Emer, un ebreo. Durante unesibizione nei campi di prigionia, beffò i tedeschi facendo fuggire alcuni internati spacciati per componenti della sua band.
Il dopoguerra spinse alle stelle la sua fama e le sue tare. Fu inseparabile di Marlene Dietrich e - secondo alcuni - sua amante.
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