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Il Boss «furioso» vola in testa alla hit parade

Senza tradire la sua anima di aedo del rock, di «moderno Woody Guthrie che va dalle baracche fino al Superdome», Bruce Springsteen con il nuovo album Wrecking Ball - il suo disco più arrabbiato di sempre - vola direttamente al numero 1 delle classifiche italiane e di quelle di mezzo mondo.
Un bel segnale contro la musica usa e getta del nostro business digitalizzato, in un disco che racconta senza sconti le speranze e le disillusioni di un’America mai così martoriata (se non nella Grande Depressione del 1929) dalla crisi. La rabbia del Boss sta anche in quel titolo, «palla da demolizione», «un immagine che uso nel senso di distruggere per costruire qualcosa di nuovo; è una buona metafora per raccontare l’ingiustizia e la disuguaglianza che abbiamo patito negli ultimi 30 anni». Il Boss canta dunque tutta la sua rabbia che a tratti assume i contorni della disillusione, a tratti della critica a tutto campo. Non nasconde mai la sua anima di cantore popolare, ultimo eroe di un’America on the road che sfugge alla storia per riportare i suoi valori alla cronaca. Da ogni epoca ha tratto un disco simbolo; lo ha fatto attraverso album come Darkness On the Edge of Town (lucido riassunto degli anni Settanta) fino a The Rising (allucinata epopea sull’11 settembre e dintorni). Lo rifà ora con Wrecking Ball senza (mai) dimenticare la distanza tra il sogno e la realtà americana. «Sto lavorando ad un sogno/ e il nostro amore lo trasformerà in realtà un giorno», cantava nell’inno ricco di buoni propositi Working On a Dream dedicato ad Obama. Oggi è più critico nei confronti del presidente. «Lo seguo ancora, ha fatto molte cose buone, migliorato il sistema sanitario, eliminato Bin Laden e tante altre cose, vorrei solo che attorno a lui ci fosse meno gente della middle class». Molto più severo dunque con un lavoro le cui radici risalgono alla fine del 2008. «C’era la crisi - ha raccontato il Boss - e molti perdevano la casa e tutto ciò che avevano, nessuno ha pagato per questo. Il sistema americano ha subito un crack tremendo e credo che le sue vere ripercussioni comincino a sentirsi soltanto ora». Alcuni di questi brani sono stati scritti tra il 2009 e il 2010, come l’inno solidale We Take Care of Our Own, ovvero «ci prendiamo cura dei nostri cari». «Tutto l’album - dice il Boss - ruota attorno a questa frase - che spesso non seguiamo».
Un disco arrivato in cima alle classifiche non (solo) grazie alla potenza seduttiva del rock, ma con un forte spirito folk (reminiscenze delle Seeger Sessions) e persino passaggi hip hop (col nuovo produttore Ron Aniello Springsteen ha ammesso di essersi avvicinato a tratti a «territori musicali a lui non molto famigliari»). Cuore rock e anima folk, il Boss canta ancora i perdenti, ma non le vite da strada alla Faulkner o alla Steinbeck, ora canta quelli spazzati via dalla crisi, che hanno perso l’ultimo treno per l’American Dream. Sottolinea però la sua distanza dalla politica: «ai tempi di Reagan sono sceso in campo perché ciò che faceva era veramente tremendo, ma io non sono fatto per quelle cose. Sono un entertainer e il mio pubblico è talmente vasto; ci sono democratici e tanti repubblicani, gente che viene per ascoltare l’aspetto sociale dei miei testi e persone che vengono per ballare.

E tutto questo mi fa felice». Più realismo senza rinunciare alla poesia e una visione attuale della protesta all’insegna del suo lapidario motto: «canto persone che lottano contro un mondo che le accerchia: magari consumate ma non vinte».

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