Bossi dà l’ok: «Regioni, non abbiate paura»

Roma«Tranquillo, sulle pensioni tengo duro». Il Senatùr ha scelto i panni del paladino dello status quo sulle pensioni, del «niet» alla vera riforma strutturale che poteva agire sulla previdenza. Al punto da appartarsi in un angolo di Palazzo Chigi, tra una riunione fiume e l’altra, per fare ieri sera una rassicurante telefonata al leader della Cisl Raffaele Bonanni.
Poi, in realtà, nel gran compromesso finale sul decreto-crisi, anche Umberto Bossi ha dovuto mollare qualcosa: l’anticipo al 2016 dell’innalzamento dell’età di pensionamento delle lavoratrici private. Però per tutto il giorno il leader della Lega (che ha preso in mano in prima persona la gestione del dossier crisi, oscurando il resto del partito) ha tuonato, avvertito, minacciato con piglio celodurista d’antan: «Vado a vigilare sulle pensioni, penso che nessuno osi toccarle finché non c’è chi ha il pugno più forte del mio», annunciava nel primo pomeriggio andando all’incontro clou con il premier Berlusconi, raggiunto poi anche da Maroni. E ha lanciato immaginifici allarmi: «Se vai in giro per le città trovi dei vecchietti, poveracci, che vanno a rubare nei grandi magazzini la bottiglietta o un pezzo di pane perché non hanno da mangiare. Che fai? Gli tagli anche le pensioni? No, sulle pensioni vedrete, passerà la linea della saggezza». Che poi sarebbe ovviamente la sua. D’altronde il giorno prima aveva fissato la sua linea del Piave pro-pensioni, arrivando ad evocare la fine del governo: «Bisogna saper dire dei no, altrimenti si rischia la crisi». Ieri ha smentito: «Nessun asse Lega-Tremonti per far cadere il governo», ha giurato. In questa situazione, il rischio elezioni anticipate non è certo auspicabile per il Carroccio.
Una cosa però è certa: la Lega è in gran difficoltà e soffre su tutti i fronti una manovra che rischia di penalizzare da molteplici lati la sua base sociale. Prende quota lo sfoltimento delle province, fin qui difese a spada tratta dalla Lega. Gli enti locali, compreso il partito dei sindaci del Carroccio, sono in rivolta per i tagli dei trasferimenti. Bossi prova a fare il pompiere: «Non abbiano terrore, i tagli non sono come sembrano». Ma il maroniano Flavio Tosi, sindaco di Verona, attacca a testa bassa Tremonti: «Ha fatto una fotocopia delle precedenti manovre finanziarie: era capace anche un bambino». E mette il dito nella piaga più dolente: «Il fatto che si vada ancora a tagliare a Regioni ed enti locali è il contrario del federalismo fiscale». È il governatore lombardo Formigoni a intonare la marcia funebre per la principale bandiera politica del Carroccio: «Con i tagli proposti oggi il federalismo fiscale è definitivamente morto». È toccato al ministro Calderoli tentare di zittirlo: «Formigoni sbaglia completamente, il federalismo è l’unico strumento per superare la crisi». Dalle opposizioni però si è levato un fuoco di fila sul tramonto del federalismo e sulla «raffica di nuove tasse» che gli enti locali saranno costretti a imporre, sindaci leghisti in testa.

Un pressing pesante per tentare di mettere in crescente difficoltà la Lega, vista come anello debole della coalizione di governo. «I ministri leghisti siano coerenti e votino contro», incita il Pd. Ieri sera non è successo, però.

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