Roma «L’Italia va giù, prepariamoci alla Padania». Come quelle colonne sonore che improvvisamente tornano a far risuonare il tema principale, quello che tutti riconoscono e che va a toccare le corde emotive, Umberto Bossi venerdì si è presentato davanti a una numerosa platea di militanti veneti, affettuosa con il leader ma non particolarmente prodiga di applausi. Ed è tornato a tirare fuori dal cilindro il classico toccasana per gli umori della base. I sacrifici? Sono un boccone amaro ma vanno visti nella prospettiva di una «Padania libera», perché «la Padania arriva: l’Italia hanno capito tutti che va giù, sta finendo male, dobbiamo prepararci e organizzare la Padania, se si vuole che il futuro sia dei migliori».
Ieri sera, ad Alzano Lombardo, un nuovo capitolo. Sotto tiro le pensioni («ho telefonato a Berlusconi e gli ho detto: “ci vediamo, parliamo e ci mettiamo d’accordo ma non toccare le pensioni, troveremo un’altra via”»), Casini («uno str...») e i giornalisti («hanno inventato una grande manifestazione dei centri sociali, ma non c’è stato niente. Sono dei delinquenti, bisognerebbe dargli quattro legnate»); salvo poi salvare l’impianto generale della manovra: «Tutto sommato mi sembra equilibrata, poi una soluzione si troverà».
È così che il leader della Lega torna a percorrere il concetto dell’eterno ritorno, a reincarnarsi in uno dei suoi tanti sé e a rilanciare la sua personale professione di fede nell’avvento della terra promessa. Uno scenario non indotto neppure dall’azione leghista ma dall’esasperazione popolare verso la crisi e il malgoverno centrale. Un nuovo vento del Nord irriducibile e incontrollabile, un po’ come il Bossi di queste settimane che sebbene Famiglia Cristiana si sforzi di paragonare al cavaliere inesistente di Calvino, tutto sembra meno che un’ombra sullo sfondo della scena politica.
Chi lo conosce, d’altra parte, sa bene che il Senatùr politicamente ha sette vite, come i gatti. Ed è passato attraverso stagioni di luce, sofferenza e sconfitta, magari flettendosi ma mai sradicandosi dal suo terreno e dal suo humus politico.
Durante la convalescenza confidò ai suoi: «Io sono morto due volte, poi sono rinato». Quella, però, era la rivendicazione di una tempra capace di affrontare con coraggio e a testa alta il dolore e la malattia e rialzarsi, sfidando il verdetto di chi già lo voleva fuori dalla scena. Il suo talento per la rinascita politica è tutt’altra cosa, è carisma e intuito, capacità di annusare l’aria, di adeguare velocemente la sua strategia alle condizioni politico-sociali del momento. Ma anche di resistere dentro barche apparentemente mal ridotte ma poi capaci di riprendere a navigare, con lui dentro a remare e richiamare la ciurma.
Le stagioni della sua vita politica, d’altra parte, stanno a testimoniarlo. Gli anni avventurosi dello sviluppo dei movimenti autonomisti fino alla formazione della Lega Nord, con l’ingresso in Parlamento.
L’appoggio al Pool di Mani Pulite con il cappio agitato in Parlamento. Nel ’94 la prima breve alleanza con Silvio Berlusconi, conclusa dal ribaltone. La furia secessionista del ’96 con la proclamazione dell’indipendenza della Repubblica Federale della Padania. Il riavvicinamento a Berlusconi con l’accordo per le Regionali del 2000 che fa scattare un sodalizio politico più che decennale, un «asse di ferro» vissuto come perenne esercizio di equilibrio tra la vocazione alla lotta e le responsabilità di governo, tra l’anima politica e quella localista-movimentista. E poi l’ictus del marzo 2004, la lunga convalescenza e il ritorno ai comizi nella primavera del 2006.
Una parabola, quella di Bossi e della Lega, letta sempre attraverso la lente del crisma autoritario e monocratico del fondatore ma contrassegnata anche da ribellioni, fuoriuscite, tentativi più volte abortiti di creare una Lega bis, ultimatum e penultimatum di un partito soltanto apparentemente granitico. E oggi interessato dalle fibrillazioni per la successione con decisioni sempre più spesso accreditate del timbro del ministro dell’Interno, omaggiato a Pontida di uno striscione lungo una ventina di metri con su scritto a caratteri cubitali «Maroni presidente del Consiglio!» e, nella vulgata, sempre più impegnato a spezzare il «cerchio magico» bossiano.
Una metamorfosi del partito e una proiezione verso un futuro possibile che spesso assomiglia a un grande gioco delle parti tra i due protagonisti, con il Senatùr ancora pronto a scendere in campo per spazzare i «se» e i «ma»,
far risorgere il Sole delle Alpi, indossare la sua vecchia canottiera e reimpadronirsi della sua leadership. Quanto a Maroni, per dirla con Bossi, «è un bravo ragazzo». E i bravi ragazzi, si sa, non fanno «stupidaggini».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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