La bozza sull’Irak, boomerang per Prodi

La Margherita intende votare alla Camera il testo prodiano per mettere in crisi la Quercia

Laura Cesaretti

da Roma

Il copione è quello già visto una decina di volte e che usualmente porta allo stallo: l’Unione è divisa sull’Irak, con i «riformisti» (Ds, Margherita e Sdi) che vorrebbero marcare una posizione morbida e articolata, Rutelli in particolare che vuole mettere agli atti una mozione che illustri la exit strategy dell’Ulivo, e i «radicali» (Prc, Verdi, Pdci) che minacciano di presentare una contromozione per il ritiro immediato delle truppe. Per evitare che martedì, nell’aula di Montecitorio, la spaccatura della sua coalizione venga sancita da voti opposti, Romano Prodi vorrebbe che nessuno presentasse alcunchè. Lui, d’altronde, la sua «mossa» ritiene di averla fatta, con il documento fatto trapelare venerdì. Era la bozza di una mozione parlamentare, il Professore e i suoi consulenti avevano scritto che «la Camera impegna il governo» e tutte le altre formule di rito. Poi però i pacifisti si sono seccati, Fausto Bertinotti ha alzato il telefono e ha cortesemente ma fermamente protestato, e la mozione è rapidamente finita nel cestino. Derubricata ufficiosamente: «Era solo un’ipotesi di lavoro, non ci sarà alcun atto parlamentare». Secondo Prodi - e Fassino e Boselli erano d’accordo, «meglio questo che nulla» - può andar bene così: il candidato premier, con quella bozza affidata alle agenzie di stampa, ha comunque delineato una posizione mediana, non estremista o scontatamente pacifista. Perché dunque insistere a presentare una mozione che tanto verrà bocciata, e cercar rogne con Pecoraro e Diliberto, che sono a loro volta disponibilissimi a lasciar scrivere a Prodi quel che vuole sull’Irak, a patto che non diventi un atto politico?
Rutelli però è assai meno disponibile a lasciar correre. Vuole la mozione, si è irritato per il dietro-front e fa sapere di essere pronto a trasformare la bozza Prodi in un ordine del giorno da depositare, anche da solo, in Parlamento. «È assolutamente ragionevole che ci sia una posizione come quella illustrata da Prodi agli atti del dibattito», dice il suo braccio destro Paolo Gentiloni.
Ieri pomeriggio a Prodi è venuto il cupo sospetto che potesse accadere esattamente questo, e che Piero Fassino fosse costretto a seguire Rutelli per non lasciare tutta nelle sue mani la bandierina riformista. Per questo il Professore ha telefonato a Franco Marini (con Rutelli non ci parla) e a Enrico Boselli, che lo hanno rassicurato, e poi a Fassino, che si è tenuto più sul vago: «Vediamo che succede, aspettiamo lunedì...».
Un pasticcio, insomma, dal quale nelle prossime ore Prodi cercherà di districarsi. Ma non sarà facile: al di là dell’emergenza del voto sull’Irak, la partita è più ampia. La Margherita insiste perché Prodi si caratterizzi alle primarie come il candidato dell’Ulivo, ossia di Fassino e Rutelli, su una piattaforma nettamente riformista e distinta da quella di Bertinotti. A cominciare dalla politica estera. «Nel centrosinistra si è arrivati al punto - scriveva ieri il quotidiano Dl Europa -: quale opzione di politica internazionale si sceglie, fra quelle evidentemente molto diverse compresenti nell’Unione?». E concludeva: «Se si rimarrà su questa strada, finalmente, anche le primarie che sembravano un oggetto misterioso potranno farsi interessanti».

Ma il Professore, che pure sa di doversi distinguere da Bertinotti, vuol farlo morbidamente, a modo suo, senza doversi adeguare alla linea dettata dai suoi maggiori alleati, adesso sulla politica internazionale e poi domani su quella economica, sociale e così via. E soprattutto non vuole presentare quella linea come proprio programma alle primarie, come invece reclama Rutelli, perchè vuol tenersi le mani libere dopo l’investitura.

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