Politica

Brancher nel bunker del ministero. La sinistra prepara la sfiducia

Dopo la lettura dei quotidiani l'ex sottosegretario annulla un'intervista a Sky. Fuori dal Palazzo la protesta Idv. Capezzone (Pdl): "Fanno uso politico della giustizia"

Roma - «Si può entrare?». «No». «Si può parlare con il ministro Bran­cher? ». «Con lui proprio no». «Si può portargli un tramezzino?». «Evidentemente le piace scher­zare ». Gentili e inflessibili, gli uscieri del palazzo governativo di largo Chigi 19, che ospita cin­que dicasteri senza portafoglio, sbarrano l’ingresso. Dentro, dal­le 9 del mattino, un unico mini­stro al lavoro: Aldo Brancher. Sul marciapiede, a cercare di stanar­lo, il senatore dell’Idv Stefano Pe­dica, con appresso quattro colla­boratori, il bandierone del parti­to e alcuni manifesti significati­vi: «Hai guai con la giustizia? Di­venta ministro del Pdl». Ha lavorato, o comunque è ri­masto per più di sette ore in uffi­cio, il ministro su cui pende una mozione di sfiducia che tutte le opposizioni (compresa, forse, l’Udc) si preparano a presentare in modo compatto. Mentre a Mi­lano si apriva l’udienza del pro­cesso Antonveneta che lo vede imputato, l’ex sottosegretario al­la presidenza del Consiglio, ora responsabile del decentramen­to, era già alla sua scrivania, a Ro­ma. È stato proprio il nuovo im­pegno istituzionale la motivazio­ne «tecnica» con la quale Bran­cher ha deciso di appellarsi al le­gittimo impedimento. Chiaro che ieri doveva presentarsi al mi­nistero, e nemmeno troppo tardi nella mattina. Ieri per lui la lettura dei giorna­li è stata piuttosto devastante. Pensava di aver spiegato almeno in parte la sua scelta con alcune dichiarazioni della serata prece­dente. Nessuna fuga dalla giusti­zia è all’orizzonte: «Sono una persona onesta», il suo sfogo a Repubblica . E infatti in serata i suoi legali annunciano la rinun­cia al «legittimo impedimento» e la sua presenza in aula all’udien­za del 5 luglio. Al di là della boc­ciatura del capo dello Stato e del­le parole poco amiche di Bossi (uno dei suoi «due padri politi­ci ») sono spuntate sui quotidia­ni voci di dimissioni, una presun­ta insofferenza del premier: «Sì, certo che sono stati letti i giorna­li », ci dicono con un sospiro dal­la segreteria. Ma fino all’ora di pranzo tutto rimane sospeso, dietro le finestre del secondo pia­no affacciate su via del Tritone. Questioni di fuso orario. Quello del Canada: Berlusconi è ancora in trasferta, e qualsiasi telefona­ta sul filo Roma-Huntsville non può arrivare prima dell’ora di pranzo. In attesa della chiamata chiave, Brancher telefona a Ma­ria Latella: lo aspettavano per og­gi su Sky Tg24 , ma alla giornali­sta spiega che si vede costretto, suo malgrado, «ad annullare la partecipazione», in attesa di chiarire la sua situazione con il presidente del Consiglio. Co­munque, assicurano le segreta­rie, il ministro «lavora e non può parlare al telefono». L’ingresso del palazzo «rimane aperto fin­ché all’interno c’è un ministro», ci informano i portieri. Sotto l’uf­ficio, a parte le sentinelle e Pedi­ca che «okkupa» il marciapiede, si vedono solo le facce rilassate dei turisti che mangiano i gelati. In fondo è sabato mattina. I cassetti da riordinare per le­gittimo impedimento in realtà sono però i suoi, l’ufficio da met­tere in piedi sempre lo stesso, perché il neo ministro Aldo Bran­cher occupa la medesima stanza di prima, uguale l’indirizzo, identici gli impiegati di quando era sottosegretario, i funzionari, le segretarie di fiducia. Ma que­sta impalpabilità del nuovo ruo­lo, la mancanza di un luogo che identifichi il ministero appena creato per il decentramento, non significa che non esista una montagna di incombenze da sbrigare, rivendicano dalla se­greteria: «Siamo in otto, stiamo lavorando». Per pranzo, si sono fatti bastare «qualche trancio di pizza». Per loro e per il ministro. A quanto riferiscono i collabora­tori, Brancher è stato impegna­to nella stesura della relazione tecnica sul federalismo da con­segnare a Tremonti. Poco prima dell’una, d a u n in­gresso laterale si vede entrare Daniele Capezzone. C’è la linea politica da concordare, e il parti­to sceglie, per ora, di non scari­care l’uomo in difficoltà: Paolo Bonaiuti definisce «illazioni pri­ve di qualsiasi fondamento» al­cuni «giudizi» attribuiti a Berlu­sconi. Mentre Capezzone attac­ca: «Le prese di posizione degli esponenti dell’opposizione so­no come sempre avviate sulla strada dell’uso politico delle questioni giudiziarie». «Lascia­mo lavorare Brancher - si uni­sce Maurizio Lupi - dimostrerà di sapersi difendere dalle accu­se ingiuste». Secondo Italo Boc­chino invece Berlusconi dovreb­be convincere il ministro ad an­dare dal giudice, altrimenti lo stesso premier «rischierebbe lo scudo» con l’affossamento del­la legge sul legittimo impedi­mento. Alle 16 il portone del pa­lazzo viene chiuso. Pedica, ap­postato dietro l’angolo, esulta: «Se n’è andato a piedi. Inutile che ripetono che è lì.

Li ho frega­ti» .

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